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Snuff: porno per un mondo senza speranza

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L’ultimo tassello del puzzle – in realtà solo una conferma formale di quel che già avevano capito tutti – è arrivato qualche settimana fa sotto forma del rapporto di un medico legale. La ventunenne inglese Hope Barden, insegnante di sostegno e camgirl nel tempo libero, non è morta per semplice incidente ma è stata vittima del comportamento criminale di un suo cliente. Come dire: è venuto il momento di ragionare un po’ su un caso così strano che, quando ne sentii parlare per la prima volta, pensai istintivamente che fosse una fake news.

Il 15 marzo 2018 Hope è deceduta durante un “gioco” erotico di controllo del respiro. Questa purtroppo non è la parte insolita: l’asfissiofilia è la pratica sessuale più pericolosa in assoluto, con una media globale di tre morti ogni giorno. Il fatto è che la ragazza stava esibendosi via Internet per Jerome Dangar, che in quel momento era a 400 chilometri di distanza. L’uomo era un suo cliente abituale, che nell’arco di tre mesi le aveva pagato 2.300 sterline per realizzare in diretta fantasie di vario genere ma spesso accomunate dall’elemento centrale della respirazione – dal soffiare fumo di sigaretta verso la telecamera ad, appunto, strangolarsi. Secondo chi la conosceva bene, lei aveva iniziato l’attività di camgirl un po’ per trovare emozioni forti, ma soprattutto per raccogliere il denaro necessario a finanziare un centro per adolescenti disabili. Vi lascio immaginare i giochi di parole sul suo nome, che tradotto in italiano voleva dire ‘speranza’.
Viene da pensare che la Barden avrebbe potuto semplicemente simulare gli effetti del soffocamento per evitare rischi inutili. Cosa abbia portato all’incidente letale rimarrà un mistero, ma un particolare si sa per certo: Dangar vide tutto… e per oltre venti minuti rimase davanti allo schermo senza allertare nessuno.

Il seguito della vicenda è un po’ più confuso. La polizia è risalita senza difficoltà all’uomo, che è stato arrestato non per omissione di soccorso o induzione al suicidio, ma perché durante la perquisizione del suo cellulare erano state rilevate 47 «immagini e video pornografici illegali del peggior tipo», secondo la definizione del giudice incaricato del caso. E qui bisogna fare una piccola parentesi.

Benché James Dangar evidentemente non fosse una brava persona, la legislazione inglese segue criteri molto ampi e piuttosto stravaganti per stabilire quali atti sessuali possano essere rappresentati. Nel caso specifico la cronaca cita «persone in principio chiaramente vive e che sembrano essere morte alla fine», ma anche questo potrebbe non essere molto significativo. Proprio nel Regno Unito il famosissimo Caso Spanner ha visto l’arresto di sedici persone teoricamente coinvolte nella produzione di video che immortalavano omicidi rituali… comprese le vittime, che in realtà stavano benone anche perché si trattava di semplici registrazioni di festini BDSM fra amici.
Non si sa inoltre quanti file fossero solo illustrazioni, né di che genere di video si trattasse. È stato infatti ripetutamente provato che l’esistenza di un mercato di snuff movie (video di uccisioni, magari dopo tortura) è solo una leggenda urbana: nella quasi totalità dei casi gli appassionati collezionano spezzoni contenenti effetti speciali o di pubblico dominio, registrati magari da telegiornali poco etici che mostrano incidenti, suicidi o le truculente minacce di terroristi vari. È quindi piuttosto probabile che Dangar avesse “solo” pessimi gusti, senza essere davvero un criminale nel senso più comune del termine.

L’indizio più forte al riguardo è che durante le indagini sulla morte della Barden l’uomo stesse scontando una condanna relativamente mite di 15 mesi, cioè molto meno di quanto prenderebbe qualcuno in possesso di materiale realmente preoccupante. Tutto ciò comunque poco importa, perché Dangar si è suicidato dopo pochi mesi di prigione e ben prima di un verdetto sul caso Hope. Quel che resta è semmai una brutta serie di domande, a cominciare dalla più evidente: come è possibile che qualcuno provi eccitazione sessuale per la morte – reale o simulata che sia – di un’altra persona? Le risposte sono diverse e probabilmente tante quante gli individui che soffrono di tale disturbo mentale, ma le si può ricondurre a due grandi categorie generali.

La prima è comune con tutte le patologie sessuali basate sugli squilibri di potere: un bisogno disperato di recuperare il controllo sulla propria vita. Chi vive nella paura, giustificata o meno, di essere in balia degli eventi, di non contare nulla o di essere alla mercé di persone malvagie adotta infatti strategie di coping in ogni ambito. C’è chi abbraccia una visione del mondo cospirazionista, chi si abbandona alla paranoia convinto che ogni male dipenda da gruppi convenientemente incapaci di difendersi dalle accuse e chi, come un animale chiuso in un angolo, semplicemente aggredisce chiunque gli sia diverso. Nella sfera sessuale, caratterizzata dall’essere naturalmente disinibita e avere meno filtri, le cose si fanno ancora più esplicite.
Semplificando, si sceglie di dimostrare il proprio potere assoggettando e facendo soffrire il partner (sadismo patologico), oppure scegliendo consapevolmente almeno il ruolo di vittima cedendogli ogni responsabilità del proprio dolore (masochismo patologico).
Disporre della vita di qualcuno è la forma più estrema di tutto ciò, pertanto non sorprende che questo tragico teatrino mentale ricorra nelle situazioni di crisi: le violenze sessuali aumentano di pari passo col disagio sociale. Vivere in un mondo che ci bombarda di cambiamenti rapidissimi e che i media ci descrivono come surreale e allarmante si riflette anche sulla percezione dell’eros.

Della seconda causa abbiamo già parlato spesso: l’educazione alla sessualità è stata delegata al Web, e senza una guida la gente ha pessima abitudine di confondere la fiction dei porno con la realtà. Ma il modello economico della ricerca di clic (pagati) a tutti i costi ha investito la pornografia tanto quanto il mondo dell’informazione. In quest’ultimo ci sono fake news polarizzanti per fare clickbaiting; sui siti per adulti pullulano invece interi generi nati più per scioccare che per eccitare. Come ha dichiarato Dangar stesso: «non è tanto una questione di gratificazione sessuale, quanto di curiosità». O, come si dice, di novelty seeking: un fattore psicologico ben noto che corrisponde alla ricerca compulsiva di nuovi stimoli per compensare l’assuefazione a narrazioni – non solo in ambito erotico – sempre più spettacolari, emozionanti, intense.
Solo che prendere per buone certe performance estreme ha fatto sì che già prima di aver compiuto 17 anni il 13% delle ragazze sia stato strangolato durante il sesso, e che un quarto delle donne statunitensi abbia paura per la propria incolumità ogni volta che va a letto con qualcuno. Il fatto che online esistano intere sottoculture erotiche dedicate alle fantasie dolcettiane (dal nome di un artista specializzato in pin-up con l’ambizione di essere impiccate, impalate o cucinate) non aiuta: i loro utenti – di ogni sesso – finiscono inevitabilmente per normalizzare almeno in parte l’idea che ammazzare le persone possa essere un divertente gioco erotico.

Una serie di interviste condotte dalla testata britannica Mirror dopo la morte di Hope Barden ha evidenziato come richieste di pratiche pericolose e clienti squilibrati facciano parte della routine quotidiana per molte camgirl. La famiglia della ragazza ha comprensibilmente lanciato una petizione per dare una regolamentazione più stretta alla prostituzione online, che sembra tuttavia impraticabile. Ciò non vuol dire però che non si possa far nulla per combattere le derive malsane della sessualità.

Come ripeto spesso nei miei libri e lezioni, la differenza fra le forme patologiche delle parafilie e la loro espressione sana sta tutta nella cultura in cui vengono inquadrate. Un criminale come James Dangar che resta a masturbarsi guardando una persona che muore è, prima di tutto, intrappolato in una visione autoreferenziale del sesso: l’unica cosa che gli interessava era il suo piacere – per contorto che fosse – fregandosene altamente del benessere della partner, che esisteva solo in quanto strumento per ottenere l’orgasmo, né più né meno di un sex toy inanimato. Si tratta dello stesso approccio di ogni delinquente sessuale, dal serial killer al molestatore magari inconsapevole in stile #metoo.

La cultura sex positive, con tutte le sue diramazioni specifiche quali per esempio quella del BDSM, è composta invece di principi – soprattutto etici – e di conoscenze che non servono solo a godere di più, ma anche a sviluppare l’empatia fra i partner. Esporsi a concetti quali la gestione del consenso, l’SSC, la negoziazione, il sesso sicuro, le safeword e così via ridefinisce inevitabilmente la propria idea di sessualità inculcando la nozione che si tratta di qualcosa che si fa insieme e per il piacere di tutti, non utilizzando l’altro. A parte escludere tutte le pratiche pericolose i gesti non cambiano molto: a cambiare è l’intenzione con cui vengono compiuti.

Pensare che possa esistere una singola soluzione magica a tutti i problemi di violenza e criminalità sessuale sarebbe ingenuo, ma nella lunga attesa dell’introduzione di una seria educazione sessuale nelle scuole il primo passo possiamo farlo noi. Il Manifesto degli esploratori sessuali riassume i principi della sex positivity in una dozzina di punti chiari e facili da applicare alla vita quotidiana, anche senza essere attivisti schierati.
Il trucco in fondo sta tutto nell’imparare a vivere bene con noi stessi e con i nostri partner; da lì poi si tratta solo di condividere quando possibile la nostra visione del mondo con gli altri. Le vere rivoluzioni dopotutto si fanno così: con calma, una persona alla volta, aggiungendo qualcosa alle loro vite anziché togliendolo. Senza perdere mai più la speranza di un mondo migliore.

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