Settimana scorsa ho citato un lavoro di uno dei miei eroi giornalistici, il perennemente perfetto Jon Ronson di Loro – I padroni segreti del mondo, di L’uomo che fissa le capre e di I giustizieri della rete – fra le altre cose. The Butterfly Effect è appunto “un’altra cosa”: non un libro ma un podcast, che per questo mi era sfuggito benché sia uscito due anni fa e pure gratuito. L’argomento di questo capolavoro di giornalismo investigativo è l’industria della pornografia, o più nello specifico come è cambiata dopo l’arrivo di PornHub e come ciò abbia a sua volta influenzato chi vi lavora. Se appena appena capite un po’ d’inglese vi consiglio caldamente di ascoltarlo, ma in caso contrario ecco un mini-riassunto.
Tutto comincia in modo piuttosto standard, con la storia di come sia nato il colosso del porno in streaming. Viene fuori che non è stato affatto un miracolo: se si ha un finanziamento di 362 milioni di dollari da parte delle banche, clonare YouTube non è particolarmente difficile, né assemblare un esercito di analisti e reparti marketing che rendano il tuo prodotto solidissimo e infinitamente scalabile. A quel punto si compra più del 90% della concorrenza, la si assimila senza cambiarne i marchi per mantenere almeno le apparenze, dopodiché si ottimizzano gli archivi sotto un’unica bandiera. Attendete qualche mese, e avrete ucciso per sempre l’industria della pornografia.
È qui che The Butterfly Effect diventa davvero interessante, perché Ronson parte per andare a intervistare le persone alle quali il porno gratis ha stravolto la vita: produttori, attori, fruitori, regolatori e così via. Quel che scopre fa cadere la mandibola anche a chi di solito si considera una scafata persona di mondo. Qualche punto saliente:
- Come l’uso di tag iperottimizzati ha reso le attrici sui 25 anni inutilizzabili perché «non sono più ‘teen’ ma non sono nemmeno ancora ‘MILF’»;
- Le suddette attrici che tirano a campare facendo video su misura – e ricevono richieste tanto, tanto strane, che a volte nascondono motivazioni ancora più strane e toccanti;
- La marginalizzazione “morbida” del porno e le sue ricadute pratiche, fra cui criminali sessuali inesistenti, siti di dating per adulteri, crisi religiose, attriti intracomunitari e problemi genitoriali;
- L’impatto sulla salute della gratificazione istantanea delle fantasie sessuali – e il suo impatto sulle vendite di bambole erotiche;
- Il bisogno di un sommozzatore personale, o come diventare pericolosamente dissociati dalle conseguenze del proprio lavoro;
- …nonché, tanto per gradire, un’indagine assai disturbante su quel che si rivelerà essere un possibile omicidio colposo tramite social media, che ha finito col richiedere tutta una serie di podcast separata.
Sembra materiale da tabloid, eppure tutti questi temi vengono trattati in modo eccezionalmente equilibrato, tenero e privo di giudizi. Quel che sarebbe potuto essere un esercizio spietato di tiro al piccione restituisce invece umanità ai molti protagonisti, evidenziando perfino quanto più maturi ed eloquenti appaiano rispetto ai personaggi che dobbiamo sorbirci in televisione e sui giornali. In effetti, passato lo shock per i dati presentati, quel che più mi ha insegnato la serie è stata una lezione su reimparare ad apprezzare le persone in tutta la loro complessità in quest’era di categorizzazioni fulminee. Come ha detto Ronson in un’intervista, liberarsi la mente dal bisogno di etichettare e giudicare lascia un sacco di spazio in cui permettersi di percepire chi abbiamo davanti come un vero essere umano, come lo siamo noi. Buffo che per rendermene conto abbia dovuto guardare dei porno.