Qualche giorno fa ho partecipato agli Stati Generali Europei del Turismo LGBTQ+, un evento con implicazioni importantissime puntualmente ignorato dalle orde di “attivistə” che sostengono di impegnarsi tanto per il progresso delle uguaglianze. Peccato per loro, perché avrebbero scoperto che a ottobre 2022 Milano diventerà la capitale mondiale del turismo rivolto alle persone con preferenze non normative, con il contorno di numerose attività istituzionali, manifestazioni, eventi e chi più ne ha più ne metta.
Non è una notizia da poco, sia perché si traduce in una spinta all’economia tanto forte quanto provvidenziale, sia perché comporta una vera e propria rivoluzione di pensiero. Un esempio: il lancio del Protocollo QueerVadis, una certificazione ufficiale delle strutture ricettive adatte a persone LGBTQ+. O, in parole semplici: «caro albergatore/ristoratore/fornitore di servizi/ente territoriale, se vuoi guadagnare una parte dei 195 miliardi di euro mossi ogni anno da questo tipo di clientela ti devi adeguare. Non puoi più discriminare nessuno né fra gli ospiti né fra il tuo personale, devi adottare un codice etico adatto a questo secolo e schierarti ufficialmente. Altrimenti tutta quella gente e quei soldi andranno da un’altra parte».
La storia insegna che il progresso è guidato più dal portafogli che dalle manifestazioni in piazza o dalle sceneggiate dei politicanti. Scommettiamo che all’improvviso spunteranno dappertutto sostenitori “da sempre” delle bandiere arcobaleno?
L’evento mi ha fornito un sacco di altro materiale su cui ragionare, fra cui la constatazione da parte di tutti i presenti che la sigla ‘LGBTQ+’ non si può proprio sentire, e forse sarebbe anche ora di semplificare tutto in ‘plus’, che è di gran lunga più pronunciabile. Ma, più di tutto, mi ha colpito un momento davvero memorabile.
Sul palco sono arrivati i rappresentanti di parecchie nazioni, che una dopo l’altra hanno decantato quanto fossero “plus-friendly” i loro paesi – scivolando a volte in lapsus di discriminazione verbale assai gustosi – e quali iniziative organizzino per i turisti LGBTeccetera.
Infine è arrivato il turno della Norvegia che, con una punta di imbarazzo, ha dichiarato: «Ehm… Noi a dire il vero una politica del turismo per le persone così non ce l’abbiamo… Perché semplicemente sono persone come tutte le altre, e trattiamo tutti allo stesso modo». Mi rincresce dire che in sala ci sono stati molti meno applausi e rossori di quanto sarebbe stato lecito aspettarsi.
Col passare degli anni sono sempre più insofferente nei confronti delle etichette, soprattutto quando vengono applicate a sproposito. È il caso delle sessualità “insolite”, che di insolito hanno ben poco e rappresentano solo uno dei tanti aspetti – fra l’altro molto variabile nel tempo – della normalissima condizione umana. Un conto è dare un nome preciso a determinate preferenze, tanto per capirsi più facilmente, ma ridurre la complessità di una persona ai suoi gusti erotici fino a renderla la sua intera identità è spaventosamente stupido.
È palese che alimentare la narrativa del «noi siamo diversi da voi» sia molto conveniente per le persone senza scrupoli di ogni fazione, così come quella del «non sei veramente [inserire etichetta a caso] se non ti uniformi ai canoni che ho deciso io». In rare occasioni, come nel caso della certificazione di cui si parlava prima, può perfino condurre a degli sviluppi positivi per tutti. Tuttavia seguire quella tavola rotonda mi ha fatto venire una gran voglia di traslocare in Norvegia, dove gli hotel e le località turistiche sono accoglienti per tutti invece che per categorie specifiche di persone, e dove chiunque, dal parrucchiere al venditore di salami di renna, ti considera innanzitutto una persona anziché “un gay”, “una donna”, “un praticante di BDSM” o altre etichette che faremmo bene a toglierci d’addosso – anche nei confronti di noi stessi.