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A volte un piccolo evento può scatenare una serie di collegamenti mentali che conducono alla risoluzione di parecchi ragionamenti rimasti a lungo a metà, e forse a una importante intuizione. È ciò che è accaduto con la tormentata gestazione di questo post, che richiede tuttavia una contestualizzazione abbastanza impegnativa per poter essere apprezzato. Di conseguenza ho dovuto dividere l’articolo in due parti. Vi chiedo di avere pazienza, e prometto che varrà la pena di leggerlo tutto.
Sono nato nel 1969, proprio mentre gli ingegneri della NASA completavano il gigantesco razzo che avrebbe portato i primi uomini sulla Luna – e da bambino volevo diventare un astronauta come loro. In questo non c’era niente di strano: era quello che desideravano tutti, semplicemente perché quell’avventura aveva lasciato tutti eccitati e impressionati ancora molti anni dopo che il sig. Armstrong ed equipaggio fossero tornati sulla Terra. Credo sia impossibile dare l’idea delle dimensioni dell’entusiasmo generale: il mondo intero – compreso il terribilissimo Impero del Male che aveva cercato di anticipare gli americani – aveva constatato come decine di migliaia di persone avessero riunito i loro migliori sforzi per costruire la macchina più formidabile di tutti i tempi, e fossero alla fine riusciti a giungere letteralmente là dove nessun uomo era giunto prima.
Scienziati, ingegneri, tecnici e piloti ce l’avevano fatta grazie all’aiuto di innumerevoli collaboratori di ogni tipo, dai tizi che si erano dovuti inventare dal nulla il “cibo spaziale” alle migliori sartine della nazione, scelte per cucire le impunture delle tute spaziali da cui dipendeva la vita degli astronauti. Benché a quei tempi non ci fosse ancora una gran cooperazione internazionale, i cuori di tutti gli abitanti del mondo avevano battuto per l’equipaggio dell’Apollo 11. L’intero pianeta aveva fatto un sogno immensamente grandioso, e la pura forza di volontà collettiva lo aveva trasformato in realtà.
Mi ricordo chiaramente come nei due decenni successivi il semplice vocabolo ‘spaziale’ venisse usato per rendere qualsiasi cosa – dal formaggio all’alta moda – ancor più desiderabile. La gente ci cascava in parte perché le ricadute del programma spaziale erano in effetti divenute di uso comune sotto forma di nuovi materiali plastici, orologi digitali, tessuti e oggetti vari, e in parte perché il successo degli allunaggi aveva confermato che le nostre speranze collettive per il futuro fossero ben riposte. Oggi sembra buffo, ma usavamo davvero la formula ‘dell’anno 2000’ per indicare un brillante futuro prossimo in cui scienza e tecnologia avrebbero trasformato le nostre vite in qualcosa di meraviglioso, probabilmente con un look alla Flash Gordon. La NASA aveva ispirato chiunque a mettersi d’impegno a costruire quel futuro: gran parte della rivoluzione informatica è stata per esempio frutto degli sforzi di nerd fissati con lo spazio, e altroché se ha cambiato il mondo!
Finché, forse inevitabilmente, le cose sono pian piano cambiate. Ci siamo resi conto che quegli zaini a razzo non sarebbero arrivati ancora per un pezzo, e che le rocce lunari erano solo… beh, rocce. Minerali che avevano richiesto spaventose quantità di denaro per essere portati sulla Terra, al punto che sfumate le celebrazioni in tanti cominciarono a mettere in discussione il senso della cosa. Non c’erano forse altri modi più pratici di investire tutti quei soldi? Certo, la plastica e le calcolatrici tascabili erano utili, ma…
Col gennaio 1986, il disastro del Challenger mise una definitiva pietra tombale sull’infatuazione globale per l’esplorazione spaziale. C’erano cose più banali di cui preoccuparsi. Oggi abbiamo una fottuta stazione spaziale grande quanto un campo da calcio che ci vola sopra la testa, eppure la gente ha solo una vaga percezione di un’impresa tanto incredibile. A dirla tutta, nessun ragazzino sogna più di fare l’astronauta. La realtà, la percezione dei rischi, problemi tecnici, bisogni e limiti concreti hanno cospirato a cambiare la narrativa – e con essa i nostri sogni.
Per triste che possa sembrare non c’è niente di intrinsicamente sbagliato con questo processo. Secondo Freud e la sua Teoria della Civiltà, sostituire l’impulso infantile all’autosoddisfazione del nostro innato “principio del piacere” con il maturo buon senso di seguire il “principio di realtà” e provvedere ai bisogni presenti e futuri nostri e dei nostri cari costituisce la base della civilizzazione stessa.
Come dicevo sono nato nel 1969. Non sono vecchio ma nemmeno più un ragazzino: ho appena festeggiato trent’anni di sessualità alternativa, e durante questo periodo ho visto abbastanza progresso da aver potuto notare un fenomeno simile anche nell’ambito del BDSM. Fatemi allora fare la parte del nonno e lasciate che vi spieghi cosa intendo.
Prima dell’inizio degli anni ’90 del secolo scorso l’eros estremo è stato storicamente alimentato da due ingredienti. Il primo è l’istinto naturale di tutti i mammiferi ad adottare dinamiche sociali di dominazione e sottomissione in ogni ambito, sessualità compresa. L’altro è la fiction – specie letteraria. Un complesso mix di regole sociali, cultura (e sua mancanza), religione, percezione dei rischi connessi alle malattie a trasmissione sessuale, tecnologia, comunicazione e accesso a persone dai gusti simili ha infatti portato a sperimentare il “sadomasochismo” principalmente a livello immaginario, come fantasia. Alcune persone ci andavano giù pesante con le consorti o con prostitute, ma era qualcosa di molto più vicino a un abuso violento che a ciò che oggi chiamiamo ‘BDSM’; non è una coincidenza che ques’ultimo termine non esistesse neanche, e che i giochi erotici fossero abitualmente assimilati a crimine e malattia mentale nella concezione tanto del grande pubblico quanto di professionisti quali giudici, psicologi, polizia e così via.
Per la nostra mentalità attuale suona inconcepibile, ma in un mondo in cui sex toy e aggeggi kinky erano pressoché sconosciuti e comunque di bassissima qualità, i rari “bordelli S/m” disponibili in un ristretto numero di grandi città erano accessibili solo a un’elite molto ricca e dedicata, mentre il resto del mondo doveva accontentarsi di sognare solamente quel tipo di cose.
Per secoli, quei sogni si sono ispirati alle fonti più improbabili: principalmente libri assai intellettuali che sfruttavano le descrizioni di torture e abusi sessuali come metafora per scopi di critica sociale – ma senza dubbio anche per solleticare tanto i lettori quanto gli autori stessi. All’epoca non era insolito masturbarsi su opere cervellotiche quali Il giardino dei supplizi di Mirbeau, Le lacrime di Eros di Bataille, Nella colonia penale di Kafka o quel sempreverde della violenza che è Le 120 giornate di Sodoma di de Sade. Il problema è che le stesse persone si facevano seghe pure su orrori ben più concreti, quali le allora rare fotografie di torture del primo Diciannovesimo secolo e di esecuzioni capitali contrabbandate dalla Cina.
Il primo materiale onanistico “perverso” un po’ più esplicito cominciò a circolare solo dopo la Seconda Guerra Mondiale sotto forma di “storie criminali” e fumetti neri, in film con crudeli nazisti stranamente sessualizzati e romanzi rosa le cui belle protagoniste avevano la bizzarra tendenza a finire sempre in qualche modo legate e frustate. Quelli furono anche i decenni in cui comparvero anche le prime vere e proprie riviste per adulti incentrate su bondage e dominazione, assieme a romanzi erotici esplicitamente orientati alla sottomissione quali Histoire d’O e i suoi infiniti cloni.
Questi prodotti tendevano finalmente a essere meno violenti, ma mantenevano caratteristiche chiaramente di fantasia. Sia nelle storie pubblicate da riviste tipo Penthouse che nel lavoro di Pauline Réage le vite dei personaggi ruotavano interamente attorno al BDSM. O si trasferisce in un castello da favola per ricevere un addestramento a tempo pieno al ruolo di schiava; innumerevoli “storie vere dei lettori” contenevano improbabili vicende di segregazione permanente, abbandono di ogni contatto con la vita normale, marchi irreversibili e modificazioni corporee, o come minimo di una devozione ossessiva al partner dominante in ciò che era a tutti gli effetti una psicosi romanticizzata.
Solo pochi giorni fa, leggendo Our Lives, Our History, un libro sulla nascita della cultura BDSM moderna, ho incontrato diverse parti in cui si raccontava la sorpresa e il sollievo di chi scopriva da praticanti più esperti che no, essere uno schiavo erotico non non comportava “perdere tutti i diritti” o “abbandonare ogni vita al di fuori del servizio”. Per quanto non sembri aver senso per la sensibilità del 2017, una tale visione assolutistica era semplicemente il risultato dell’idea comunemente accettata dei rapporti di dominazione e sottomissione, le cui radici erano piantate molto più saldamente nella fiction che in una loro esperienza concreta. Fino ai tardi anni Settanta per molte persone il concetto stesso di BDSM come gioco anziché stile di vita totalizzante era inconcepibile solo perché non ne avevano mai incontrato una tale descrizione. Ma le cose stavano per cambiare, e in fretta.
Con l’arrivo degli anni Ottanta un’altra confluenza di fattori introdusse una nuova e rivoluzionaria visione dell’eros insolito che partendo dagli Stati Uniti conquistò rapidamente il resto del mondo. Il nuovo benessere economico generale, comunicazioni più facili, cambiamenti sociali e la tragedia dell’epidemia globale di HIV avevano portato ovunque gli esploratori dell’erotismo estremo a entrare in contatto, scambiarsi appunti, sviluppare modi di giocare più sicuri e raffinati, e in generale a fondare il tipo di cultura del BDSM che conosciamo oggi.
All’improvviso spuntarono club, associazioni educative, concetti innovativi quali SSC, safeword ed empatia durante le sessioni – strumenti eleganti per tempi più civilizzati che fino ad allora erano stati riservati solo a una piccola elite di conoscitori. Fu qui che si inventò il vocabolo ‘BDSM’ per separare una volta per tutte un sereno gioco erotico dal malvagio ‘sadomasochismo’!
Il più importante fattore di cambiamento per le sessualità alternative è stato probabilmente la diffusione di massa di Internet. Nel bene e nel male, ha facilitato come niente altro l’accesso alla sapienza kinky dando origine anche a inestimabili manuali di BDSM, corsi e altro. Finalmente si poteva apprendere come trasformare le proprie fantasie di dominazione in realtà, come torturare i propri partner senza provocare veri danni, come gestire a perfezione le trappole emotive e psicologiche insite in questi giochi. Non c’è dubbio che questa fase abbia rappresentato un salto di qualità di cui c’era molto bisogno e che ha permesso a un immenso numero di persone di venire a patti con i loro desideri smettendo di avere paura di se stesse, di trovare gente con idee simili e gruppi nei quali poter esprimere la propria natura più profonda senza paura di essere giudicati, di trovare supporto e opportunità di vivere finalmente i propri sogni in modo sano.
Peccato che questo sia stato anche il momento in cui è andato tutto a puttane.
[Continua nella seconda parte]