La maggior parte delle interviste è – concedetemi la metafora sconcia – come una di quelle storie usa e getta: incontri qualcuno che ti piace, segui un piacevole percorso di scoperta di cosa la emozioni davvero, dite entrambi tutte le cose giuste, e alla fine ci si saluta soddisfatti e senza rimorsi, arricchiti da un paio di bei ricordi in più. E poi ci sono le altre interviste. Quelle sono più simili a esperienze kinky dure e tormentate, di quelle che richiedono gran tempo per farsi il coraggio di buttarcisi e poi, un po’ come in una sessione di fisting, ti costringono ad affrontare i tuoi lati più oscuri. Si tratta di bestie brutte e sporche che vanno contro ogni decoro: comportano inevitabilmente molte verità e una discreta quantità di dolore – ma finiscono anche col toccarti l’anima e ti lasciano davvero cambiato. Questa è una di quelle, per cui c’è voluto un anno di gestazione.
La prima volta che ho incrociato Peter Banki è stata all’Xplore di Berlino del 2017, un festival esperienziale di sessualità alternative che nel frattempo è divenuto uno dei miei eventi preferiti. Lui è un filosofo australiano con una certa reputazione di essere “la pecora nera del sesso estremo”, che peraltro stava alimentando con una serie di seminari sottilmente minacciosi intitolati Essere cattivi ed Essere molto cattivi. Ciò che più mi ha colpito di lui è stata tuttavia un’altra conferenza in cui aveva toccato una serie di concetti piuttosto pesanti che di solito non vengono mai nominati nel giro della cosiddetta positività sessuale: l’effetto intimo del neoliberalismo, il fallimento dei movimenti di liberazione sessuale e molti altri punti che sinceramente non sono riuscito a seguire con la stessa competenza di altri membri del pubblico.
Era quindi ovvio che volessi saperne di più… ma a differenza di chiunque altro, il signor Banki ha semplicemente schivato ogni mia richiesta di interviste – fino a quando all’Xplore di quest’anno lo ho messo con le spalle al muro mentre si riprendeva da un laboratorio particolarmente intenso e sono finalmente riuscito a fare una delle conversazioni più interessanti della mia strana carriera. Eccola qui.
Ciao, Peter! Sono felicissimo di questo momento di pausa da tutte le distrazioni con cui ci sta bersagliando il gigantesco festival sul sesso estremo che ci circonda. Non vedo l’ora di farti qualche domanda sui temi che hai toccato nei tuoi workshop, ma forse è meglio cominciare da una tua presentazione ai lettori?
Beh, ho una formazione umanistica, specie sulla letteratura europea tra il XVIII e il XX secolo, e in filosofia – soprattutto francese e cinese. Sono stato coinvolto nel giro sex-positive, o meglio nell’Xplore, a partire dal 2004 e l’associazione con Felix è stata molto fruttuosa. Il suo spazio mi ha dato l’opportunità di esprimere concetti creativi altrimenti irraggiungibili, o per lo meno di certo non nel mio lavoro accademico. Gli spazi di positività sessuale mi interessavano da tempo, ma è a questo festival che sono stato in grado di mettere in contatto i miei interessi filosofici con il genere di aspetti più giocosi che vengono esplorati qui, ed esplorare realmente anche me stesso. Da qui sono partiti diversi miei progetti: lo spazio stesso ha ispirato alcuni miei laboratori che penso siano stati molto importanti e innovativi, e successivamente ho organizzato il mio Xplore in Australia, il che mi ha reso un produttore di festival professionista. Ora a Sydney e Melbourne faccio un Festival della morte che vorrei portare in Europa, nonché un evento sul sesso intitolato Really Good Sex Festival. Quello più recente, basato su un concetto proprio nuovo, si chiama Mascolinità creative.
L’anno scorso qui a Berlino hai tenuto una serie di conferenze e workshop che riunivano filosofia, erotismo e sociologia. L’elemento comune sembrava essere la volontà di sfidare lo status quo, perfino quello all’interno della scena sex-positive e addirittura in te stesso. Si trattava di una cosa dovuta al tuo carattere, o c’è una insoddisfazione di fondo o altro dietro tutto ciò?
Credo che sessualità e filosofia abbiano molto in comune perché, come dici tu, mettono in discussione lo status quo – basti pensare a Socrate – ma non c’è solo quello. Al centro della filosofia c’è una domanda: «conosci davvero quello che stai pensando?» Quel che riguarda il sesso è potente perché ti pone nella stessa posizione: ogni volta che pensi di avere capito rimani sorpreso. Felix enfatizza l’aspetto dell’instabilità e della non-sicurezza: qualcosa di molto destabilizzante, scomodo ma che offre anche nuove possibilità.
Quando ci ho pensato su mi sono reso conto che è proprio la mancanza di sicurezze a piacermi. La buona filosofia e i filosofi in gamba smontano sempre ciò che pensi di sapere sulla vita, sull’esistenza, la morte e così via – proprio come fa il sesso. Mi piace la mancanza di reti di salvataggio di tutto ciò, e mi considero una delle persone che camminano più vicino al bordo del baratro.
Ne avevo avuto il sentore. In effetti, perché ritieni ci sia così poco senso di sfida, così poco mettersi in discussione nell’ambiente sex-positive?
Stiamo integrandoci nella cultura di massa, e non penso sia una brutta cosa in sé. Secondo me è un bene cercare di ottenere più riconoscimento sociale, diventare più pubblici e impegnarsi nell’incoraggiare più persone a entrare nelle nostre comunità – ma questo tipo di normalizzazione implica anche il capitolare alla società.
Credi che si tratti di un processo consapevole, o è un effetto collaterale inevitabile?
Beh, penso sia abbastanza consapevole. Alcune persone sono molto convinte; credono davvero nella comunità sex-positive, vogliono pensare che la società e le persone si vergognino molto, e di essere pertanto investiti da una sorta di missione di doverli emancipare. Non è un fenomeno nuovo: risale addirittura agli anni ’60! Penso che su un certo piano sia una cosa consapevole, ma poi avviene che la gente abbia bisogno di sentirsi sicura e protetta da più regole, più ideologia. Il consenso è un’ideologia bella grossa, come lo è essere buoni e offrire in un certo senso una buona immagine di sé, mostrare di non essere persone cattive.
Il che ci riporta giusti giusti all’edizione dell’anno scorso, che si concentrava sul “cattivo”. I titoli delle tue sessioni parlavano per esempio di ‘pessimo sesso’, ‘essere cattivi’ e addirittura ‘essere molto cattivi’. Non sono stato l’unico a esserne affascinato: l’ultimo dei tre laboratori era strapieno, benché il programma non chiarisse affatto di cosa si sarebbe trattato. C’era una sorta di sensazione nell’aria, come se le persone riconoscessero e rispondessero al concetto stesso di cattiveria. È stato solo un esempio del cliché per cui il cattivo è sempre più interessante dell’eroe, o c’era qualcosa di più sottile sotto?
Penso che tu sappia che i tabù sono uno dei due o tre argomenti con cui abbiamo sempre a che fare in un modo o nell’altro. Adesso mi hai beccato mentre ero appena uscito da un laboratorio sullo sbavarsi addosso, che è un tipico tabù. Essere cattivi è un altro tabù, quindi sì, attrae la gente – ma concordo con te su quanto mi abbia sorpreso! Quando ho visto la sala così piena – e non appena ho detto che ci saremmo comportati “molto male” tutti hanno fatto «oooh!» e hanno chiamato gli amici – mi sono reso conto di avere fatto inconsciamente apparire la cosa molto attraente.
Mi ricordo che hai iniziato l’incontro spaventando le persone: avvertivi «andate via; sarà terribile e vi farà stare male con voi stessi» e così via – e più lo facevi, più gente entrava… è stato affascinante!
Devo dire anche che c’è stato un intento politico dietro tutto ciò. Specie nel farlo qui in Germania – sai che ho scritto un libro sull’Olocausto – e portare il tema del Male mentre eravamo circondati dall’eredità tedesca è stato ovviamente un esperimento, una sfida al pubblico. Penso che abbia dimostrato molto bene che fossero disposti ad accettarla, senza lasciarsi spaventare da questo australiano bizzarro.
Altroché. In effetti nel corso del laboratorio c’è stato un momento molto particolare in cui è divenuto evidente che le cose non stessero funzionando… perché i partecipanti erano troppo pieni d’amore – e in pace col loro lato oscuro – per poter essere in grado o interessati a cedere veramente alla loro Ombra e diventare davvero “molto cattivi” l’uno con l’altro. Chiaramente si trattava di un pubblico molto insolito, composto in gran parte da persone che da tempo esplorano se stesse, ma in un certo senso è stato un fallimento.
Esatto: alla grande!
La cosa mi ha sorpreso specialmente perché avevo saputo che quando avevi tenuto lo stesso laboratorio a Parigi era finita che ti volevano letteralmente linciare. Lì eravamo “troppo” evoluti? L’ambiente della positività sessuale e dell’educazione all’eros insolito si è davvero dimenticato come si fa a essere cattivi? Forse ci concentriamo troppo su una certa idea di positività? Una delle tue conferenze presentava il concetto di ‘fallimento della scena’, sia a livello personale che generale. Hai parlato di come non stiamo cambiando abbastanza, di come non ci mostriamo a sufficienza e siamo troppo insulari nel portare le nostre ideologie nel mondo esterno. Me ne parli un po’?
Quel pubblico era davvero in pace con se stesso – ma io ero anche spaventato dal contesto. Non sono stato altrettanto aggressivo, in parte anche perché i tedeschi sono più grossi dei francesi! Penso che ne fossi un po’ intimorito, così ho tirato il freno a mano e mi sono messo a parlare di amore cristiano e altri bei concetti. L’ironia è stata ottima, ma non ha aiutato affatto. Avevo quest’idea di essere “malvagio con grazia”, e alla fine qualcuno è comunque venuto a dirmi che è questo che li ha impressionati di più: voglio ritenerlo un bellissimo fallimento.
Poi naturalmente lo ho riproposto varie volte, e in ciascuna di esse ho provato a rendere la cosa più raffinata, in un certo senso più controllata, ma rispetto a quel che è avvenuto in Francia si è perso qualcosa. C’era bisogno di brutalità: a Parigi è stato interessante perché eravamo a due passi dal monumento alla Shoah – l’Olocausto mi segue sempre, anche quando sono in Australia. Mi sto interessando sempre più anche al genocidio degli aborigeni australiani, e tramite un lungo percorso personale ho capito che considerare l’Olocausto completamente diverso dalla violenza del colonialismo è stato un errore – entrambi derivano dalle stesse cose.
Ma torniamo al nostro argomento: trovo molto arguto il collegamento che hai fatto col nome del nostro movimento, su come lo chiamiamo ‘positivo’. È una cosa che ho analizzato, e la vedo già come un sintomo di neoliberalismo: bisogna essere positivi, essere buoni… ma non ci rendiamo conto che essere positivi non sia sempre un bene. Forse è vero che ci siamo dimenticati come si faccia a essere cattivi. Naturalmente al workshop c’era un sacco di energia erotica: i piaceri proibiti, sai, e l’intrigo di fare ciò che non si dovrebbe fare. A essere onesti, devo dire che è questo aspetto che mi ha sempre attratto nel BDSM.
Allora siamo in due – e vedo che quest’anno comunque terrai un laboratorio intitolato Essere buoni. Ma, parlando di neoliberalismo, nei tuoi incontri presentavi il concetto chiave per questo cui introduce una debolezza, o quanto meno un punto critico, nella cultura della positività sessuale. Quindi, tanto per cominciare, che cos’è il neoliberalismo in questo contesto?
Penso che sia la sottomissione di tutte le pratiche – anche di quelle che normalmente non vengono considerate fonte di profitto o pratiche di mercato – alla logica delle metriche economiche. Si tratta del quantificare ogni cosa. Per esempio, quando metti su un evento la cui filosofia di fondo non è far soldi ma semmai cambiare il mondo o noi stessi, resta comunque il fatto che per poterlo produrre devi imparare un sacco di cose su Google Analytics, su come far funzionare le cose in una società ossessionata dai numeri.
E in che modo tutto ciò influisce di preciso sul sesso insolito, o sulla sessualità in genere?
Profondamente, perché ne dipende tutta l’ideologia che troviamo oggi nelle nostre comunità. Per esempio influenza il tipo di workshop che si tende a presentare, come li si descrive al pubblico, come li si rende attraenti… È un gran conformarsi al modo in cui si rende attraente anche tutto il resto: «ti fa bene; ti migliorerà la vita; ti darà più potere»! Cristo, se vedo un altro cazzo di laboratorio sull’emancipazione sessuale giuro che vomito, impazzisco! Hai presente il modo in cui presentano le sessualità alternative come se fossero terapie o percorsi di guarigione?
Una mia amica ha scritto un libro intitolato Family values, in cui identifica la crescita del neoliberalismo con quella del neoconservativismo, specie negli Stati Uniti. Propone una solida teoria per cui il capitalismo ha bisogno della famiglia per esistere, perché la famiglia è lo strumento che trasferisce i capitali da una generazione all’altra. Ecco perché quando negli anni Sessanta c’è stata la liberazione sessuale la cultura di massa ne aveva tanta paura, specie quella capitalista. La sua preoccupazione era che intaccasse la famiglia, che è una struttura necessaria per far funzionare il sistema capitalista. Così ci troviamo con questa specie di malsana alleanza che a prima vista non dovrebbe aver senso: il neoliberalismo consiste nello smontare tutto ciò che è apparentemente stabile, mentre i neoconservatori vogliono mantenere le cose come sono sempre state, o reinventarle come “dovrebbero” essere.
Lei esamina per esempio l’erosione del welfare, giustificata dal fatto che tanto ci siano le famiglie a prendersi cura degli individui. Alla fine ci si ritrova però nella situazione attuale: abbiamo un ottimo sistema sanitario, ma nessun sostegno statale per la disoccupazione o altri ammortizzatori, tanto che le persone sotto i 40 dipendono ancora dalle loro famiglie e non riescono a staccarsene. Una cosa del genere limita molto profondamente il tipo di decisioni che si possono prendere. Stesso discorso vale per i prestiti studenteschi negli Stati Uniti, che mantengono sotto scacco anche i laureati: li costringono a indebitarsi con le loro famiglie e rimanerne in balia. E questo è anche il motivo per cui il matrimonio omosessuale è divenuto il fulcro di ogni attivismo LGBT.
Penso che il problema finanziario, in termini di poter creare o disporre di spazi in cui fare il tipo di lavoro che ci interessa, sia davvero fondamentale. Conosco un solo gruppo di un certo successo nel mondo sex-positive, chiamato International School of Temple Arts. È una roba new age da californiani, con un programma di formazione per guidare gli educatori a guadagnarsi da vivere attraverso la sex-positivity: funziona, ma ti costringe a fare una scelta. Vuoi crescere come persona, o avere successo finanziario? Alla fine, la chiave di tutto ciò che facciamo è essere onesti con noi stessi.
Per come la vedo io, esplorare e fare buona educazione alla sessualità vuol dire decostruire. Mi pare che si tratti proprio di scombussolare le cose, no?
Hai usato la parola ‘decostruzione’, che per me ha un valore speciale perché ne ho studiato molto gli esponenti. Mi piace che tu l’abbia usata in questo contesto perché ti do pienamente ragione: la sessualità ha un potentissimo effetto decostruttivo. Penso che Xplore accolga, inviti tale decostruzione sotto molti aspetti. La sua teatralità, il fatto di non promettere a nessuno di far loro del bene… Benché Felix creda profondamente di farne, io non ne sono tanto sicuro… però si tratta come minimo di uno spazio in cui porsi tante domande che di norma vengono ignorate o represse. Lui ha un approccio molto umanista o artistico in quel che fa, proprio agli antipodi del neoliberalismo.
È stupefacente come alla fine tutto riporti comunque alla filosofia. Suppongo che per te si tratti di una deformazione professionale… o si è sempre trattato di questo? Mi ricordo il livello stellare della discussione filosofica durante e dopo le tue conferenze. Per essere un campo in cui a volte è difficile perfino elevare il tono dal livello primordiale di «TETTE!», il tipo di partecipazione preparatissima di gran parte del pubblico mi ha lasciato a bocca aperta. Ti capita spesso, o si è trattato solo di un’occasione particolarmente fortunata? Che cosa pensi del modo in cui il grande pubblico recepisce il messaggio di positività sessuale?
Direi che non è un caso se la culla della filosofia fosse qui in Germania. Penso che ci sia una speciale… diciamo apertura, o interesse verso questo approccio – un’accoglienza molto più calda qui che in qualsiasi altra parte del mondo. Il che è sorprendente, perché non padroneggio troppo bene il tedesco, eppure trovo una disponibilità a discutere molto più grande qui che in altri paesi. È delizioso, e sì: questo è quel che accade sempre quando porti l’arte nella sessualità. Introdurre la filosofia nel sesso lo eleva; quel che avviene è un’elevazione dell’essere umano.
Non so se sia l’Italia in particolare ad avere problemi al riguardo, ma la mia esperienza personale è che sia fottutamente difficile far fermare un attimo la gente e farla pensare a quel che sta facendo, specie quando c’è di mezzo il sesso. E ciò mi riporta a un altro punto chiave dei tuoi discorsi, cioè il fatto che la maggior parte degli educatori e della gente sex-positive sembri convinta di stare facendo una gran rivoluzione, che però al di fuori di questo contesto non viene affatto percepita. Di recente ho letto un libro che arrivava addirittura al punto di considerare una possibile cospirazione sociale, che in sostanza dice: «i poteri forti permettono agli esploratori sessuali di essere devianti nelle loro belle comunità chiuse, così non disturbano i cittadini per bene». Per come la vedo io mi sa che siamo invece semplicemente parte di una comunità piuttosto pigra, che ha più piacere a complimentarsi l’un con l’altro anziché affrontare gli sforzi e i conflitti che nascono quando si cerca di portare il messaggio nel mondo mainstream. Tu che ne pensi invece?
Secondo me hai profondamente ragione. È vero che quel che facciamo in questo ambiente non turbi lo status quo quanto si immagini. Ciò che davvero preoccupa il potere, le persone che proprio non sopporta, sono individui tipo Julian Assange o Chelsea Manning – solo i primi due che mi vengono in mente – perché rivelano qualcosa dello status quo che i potenti non vogliono venga reso pubblico, né visto.
Credo che nei limiti della nostra piccola comunità si riesca comunque a sbirciare nel retroscena, ma non ha certo la stessa efficacia. Tanto per chiudere il cerchio: non sarà che per fare una rivoluzione come si deve sia necessario essere cattivi?
Oh, che domanda! Io sarei cauto a dire una roba del genere. Innanzitutto, come filosofo, mi chiederei cosa intendi con “rivoluzione come si deve”: in parte bisogna rivoluzionare anche la confidenza che abbiamo nel concetto di Appropriatezza. Voglio dire che c’è sempre un concetto appropriato di appropriatezza – in effetti è l’obbiettivo del decostruttivismo di Derrida. Ce lo ritrovi quando parla di presenza e decostruzione della presenza, o anche quando parla di decostruzione dell’appropriato. E poi mi viene in mente che la gente etichetterà sempre ogni rivoluzione come appropriata o non appropriata – ma ogni volta che ce n’è stata una importante si è trattato tanto di appropriato quanto di inappropriato.
D’accordo, allora fammi riformulare la domanda: come si combatte il neoliberalismo nella sessualità, e qual è la tua ricetta per una rivoluzione sessuale?
OK, questa è un’ottima domanda. Quel che posso dire è che, in tutta onestà, sotto molti aspetti anche io chino la testa e mi sottometto ai dettami neoliberali. Lo faccio con una certa consapevolezza, e penso che si compiano costantemente negoziazioni difficili di questo tipo fra ciò che è necessario per far funzionare le cose nella cultura in cui viviamo, e produrre qualcosa che ritengo possa avere un valore genuino per tutti. Se considero il mio passato, la mia traiettoria, posso notare di essere divenuto politicamente molto più attivo di quanto sarei stato se non avessi avuto accesso a comunità come questa – quindi ritengo che possano davvero aiutare l’emancipazione e a rendere le persone più consapevoli… tuttavia non penso che questo valga per tutti gli eventi di questo tipo.
Io cerco di fare tutto quel che posso, ma temo anche che potrei concentrare le mie energie su qualcos’altro che potrebbe produrre molto più benessere – questo è il problema. Chi lavora nel mio settore non ragiona in questi termini: specie in Australia si parla solo al positivo. Non esprimerebbero mai queste insicurezze, che per me fanno parte dell’etica, dove cioè possono nascere i cambiamenti più importanti. Fa tutto parte dell’eredità di Derrida, che scriveva dell’indecidibile, dell’essere bloccati nell’aporia. Lui diceva che affrontare le impasse è l’unica possibilità che abbiamo per essere etici e muoverci nella direzione giusta. Il bene lo fai quando non sei sicuro di te stesso, quando non hai quella autoconsapevolezza. Ciò che sento da parte dei miei colleghi è invece una certezza granitica che stiano facendo del bene, senza alcun dubbio sulle loro azioni. Quel che sento invece che dovrei fottutamente insegnare loro è di essere meno sicuri di se stessi ma andare comunque avanti. Procedere e mettersi alla prova, chiedendosi se possiamo parlare di ciò che stiamo facendo in modi nuovi, o quanto meno in modi più riconoscibili nell’ambito del contesto neoliberalista nel quale operiamo.
Oh, Peter… Ho un’ultima domanda per te. Una cosa che ha sconcertato molti è la fascia di latex che porti al braccio, con i colori e la forma di quella nazista ma con un gran punto di domanda al posto del simbolo. Mi spieghi di che si tratta?
In effetti ha una bella storia. All’inizio volevo che fosse una svastica: sono andato in un negozio BDSM di Schöneberg che si chiama Butcherei, cioè ‘macelleria’, che è un termine piuttosto scioccante per me. Ho spiegato loro cosa volessi e il tipo al banco si è rifiutato. Non era una questione legale, ma una resistenza molto più profonda: è un uomo gay, e naturalmente anche i gay sono stati vittime del nazismo. Mi ha spiegato che quella simbologia non gli piace nemmeno quando fa parte di semplici giochi erotici; ho imparato molto da quell’incontro e dalla discussione che abbiamo avuto. Poi è arrivata la signora che produce fisicamente i loro articoli, e ha detto semplicemente: «perché non ci metti un punto di domanda, invece?». Aveva ascoltato il mio concetto per il laboratorio sull’essere cattivi e quel che volevo esplorare, e abbiamo tutti concordato che sarebbe stato ancora più in linea con i miei desideri. Passato quel momento abbiamo tutti tirato il fiato e ci siamo finalmente rilassati – e alla fine il risultato è più artistico e forse anche più potente così.
La parte interessante è che ho una collega che lavora in Austria, che come nazione non ha elaborato il suo passato bellico tanto quanto la Germania benché gran parte delle SS venissero effettivamente da lì – e lei per smuovere le coscienze usa proprio il simbolo della svastica. Io credo politicamente di aver fatto un bel passo in avanti approcciando la questione ma trasformandola in qualcosa d’altro. Pensa che ho dato due di quelle fasce alle mie amanti: si tratta del mio regalo alle persone che ritengo più importanti.