Questo articolo è stato scritto originariamente per la rivista Psicologia Contemporanea
Superare i propri limiti personali è difficile per definizione, ma capirne le origini aiuta moltissimo
Proprio ieri ho avuto il privilegio di tenere una lezione sulle sessualità atipiche nell’ambito di un master di criminologia. L’aula era prevedibilmente di mentalità piuttosto aperta e ben disposta ad affrontare argomenti non proprio semplicissimi, tuttavia ci siamo scontrati subito con qualche pregiudizio. «Partecipo a questo corso per informarmi,» ha dichiarato per esempio un’avvocata di cui riconoscereste senz’altro il nome, «ma cose come il sadomaso non potrò mai accettarle».
Nelle ore successive ho spiegato la differenza fra il sadomasochismo patologico e il BDSM. Ho trattato gli strumenti adottati nelle esplorazioni erotiche sane: negoziazione, safeword, approccio SSC (Sano, Sicuro e Consensuale), la gestione approfondita del consenso stesso e così via. Ho mostrato le mille attenzioni che aiutano a coltivare empatia e fiducia profondissime in rapporti “devianti” che spesso si dimostrano molto più equilibrati di tante relazioni di coppia tradizionali. Ho decodificato i meccanismi neurologici alla base di gusti apparentemente incomprensibili. Addirittura, ho guidato la classe in un gioco di ruolo che facesse toccare con mano le dinamiche di scambio di potere in un’esperienza di dominazione e sottomissione.
Alla fine, durante una pausa, ho avuto il piacere di riscontrare la reazione che avevo previsto: quella stessa persona è venuta a ringraziarmi per averle dato una prospettiva del tutto differente sul fenomeno. A titolo personale continuerà a non apprezzarlo, tuttavia adesso ne comprende finalmente il senso e, di conseguenza, valuta anche i praticanti sotto un’altra luce.
Restavano però da affrontare tanti altri temi legati alle sessualità insolite. Quand’è arrivato il momento di citare la body modification – cioè le molte vie con cui alcune persone trasformano fisicamente il proprio corpo per ipersessualizzarlo e moltiplicare così l’intensità del piacere che può dar loro – la platea ha preso ad agitarsi. Perché si potrà pur razionalizzare tutto, ma vedere in tutta la gloria di una slide in alta risoluzione i livelli di dilatazione ai quali certa gente allena i propri orifizi… beh, fa obbiettivamente un certo effetto. E non parliamo dei piercing, specie quando sono molti o raggiungono lo spessore di un dito o giù di lì.
Ricorderò sempre un’altra lezione tenuta in un grande ospedale del nord Italia. L’argomento era simile benché decisamente più soft, e dopo tutte le spiegazioni il correlatore e io ascoltammo molto imbarazzati un primario confessare: «ora che mi avete dato questa prospettiva mi rendo conto di avere probabilmente fatto un errore diagnostico qualche tempo fa, quando ho richiesto un TSO per una ragazza che avevo identificato come gravemente autolesionista… perché portava degli anellini ai capezzoli». Parliamo di anni fa: i piercing erano forse un po’ meno diffusi di oggi, ma c’è da chiedersi cosa avrebbe pensato allora quel signore vedendo le immagini di gioielleria assai più estrema proiettate ieri.
Per non parlare poi del “pezzo forte” che ha fatto scoppiare una accalorata discussione fra gli studenti: le bimbo. Non è un errore di scrittura. In questo caso ‘bimbo’ è un termine inglese per indicare quelle giovani donne che scelgono di sottoporsi a numerosi interventi di chirurgia estetica per incarnare l’estetica da fumetto di bambole sessuali in carne e ossa, sul genere della leggendaria Jessica Rabbit di Chi ha incastrato Roger Rabbit?. L’idea che qualcuno sano di mente potesse davvero volersi portare a spasso tette grandi come angurie (senza contare tutte le altre modifiche) risultava inaccettabile a chi, per mestiere, la sanità mentale è abituato a valutarla tutti i giorni.
Tralasciamo un attimo le considerazioni morali, però, e leggiamo le dichiarazioni di queste signore che, in parecchi casi sono regolarmente laureate o comunque del tutto lucide. «Potevo abbruttirmi per una vita in un call center oppure investire sul mio corpo. Questo aspetto mi ha aperto le porte di un mondo di imprenditori e calciatori di serie A che mi fanno vivere nel lusso, senza particolari sforzi e con ben meno compromessi di una escort. Se non troverò l’amore della mia vita tra qualche anno potrò ritirarmi, togliere le protesi e tornare alla vita normale… ma senza alcuna preoccupazione per il futuro. Cosa c’è di male?» È esattamente lo stesso ragionamento che, a suo tempo, esprimeva candidamente la diva delle dive Marilyn Monroe – ma, a guardar bene, anche quello di qualsiasi atleta professionista; plasmare il corpo per profitto o seguendo i propri sogni. La differenza sta solo nell’aspetto sessuale della trasformazione.
Ripeto: è pacifico che ciascuno di noi abbia la propria scala di valori e che – nei limiti della legalità – non ce ne sia una intrinsicamente superiore a un’altra. Il problema, soprattutto per chi opera nel campo della psicologia, è squisitamente pratico nel momento in cui si trovi a interagire con soggetti così intensamente lontani dalla propria quotidianità. È una questione nota che nel corso del tempo ha riguardato molti altri stili di vita atipici: basti pensare all’omosessualità o alle persone transgender, la cui accettazione è ancora discutibile oggi nonostante decenni di lavori sul tema. Certo è, tuttavia, che molti lettori avrebbero una reazione istintiva men che illuminata se dovessero trovarsi a trattare con qualcuno che vive il sesso come furry, lavorando come pornostar, nutrendo una passione per il pet play, o anche solo per la castità.
Se all’ultimo caso avete fatto spallucce, vi informo che mentre scrivo è in corso il locktober, cioè il mese di ottobre in cui ogni anno centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo tengono volontariamente i genitali sotto chiave usando cinture di castità e strumenti analoghi. Ripeto: centinaia di migliaia. Che, in parte, proseguiranno l’esperienza durante no-vember – con quel “no” decisamente in evidenza – mentre magari il partner non smette un attimo di stuzzicarli. Scoprendo fenomeni simili è difficile non pensare che qualcuno con gusti così lontani dalla nostra “normalità” non sia davvero un po’ matto, no?
La chiave, però, sta nella parte dello ‘scoprire’. Come nel caso iniziale del BDSM, come per le bimbo, ogni apparente follia ha alle spalle motivazioni chiare, spiegazioni approfondite, che ne cambiano completamente la percezione… se solo si ha la possibilità (o la pazienza) di conoscerle. La vera assurdità, soprattutto per chi fa dello studio della mente la propria professione, è fermarsi all’apparenza. Peccato che questo sia proprio l’approccio favorito dall’ambiente che ci circonda.
Prima ancora della resistenza che inevitabilmente si risveglia in noi quando si tratta di confrontarsi con l’Altro, infatti, dobbiamo tenere conto dell’effetto deleterio dei media. Come dimostrano i molti dibattiti sugli effetti delle “bolle informative”, consapevolmente o meno sono loro a dettare gran parte della nostra visione del mondo.
In questo non ci sarebbe nulla di male se non fosse che – e lo dico da giornalista – i canali dell’informazione, dal quotidiano più classico al sito web più alternativo, non possono parlare correttamente di sesso, soprattutto in Italia. Parte del problema è lo stato pietoso del settore, con innumerevoli “giornalisti” privi di formazione e pagati cinque euro lordi alla notizia. Quindi non solo svogliati, ma impossibilitati a dedicarvi l’attenzione e la ricerca che richiederebbero.
Molto dipende però dalla necessità di far convivere due obbiettivi opposti. Da una parte catturare l’attenzione con notizie intriganti – e per questo il sesso insolito sarebbe perfetto – e dall’altra dover preferire argomenti blandi, neutrali, che non entrino in conflitto con le strategie di comunicazione degli inserzionisti che, a conti fatti, permettono la sopravvivenza delle testate. E credetemi, il grande supermercato o il produttore di merendine non prenderebbe per nulla bene comparire fianco a fianco con uno speciale «su quelle porcate lì» – che magari personalmente apprezzerebbe anche parecchio, ma non quando si scontra con la mentalità assopita del leggendario “consumatore medio”.
L’unica soluzione possibile ai mass media, allora, è trattare le parafilie sì, ma con un approccio “rispettabile” di scandalo o sarcasmo. Quello stesso approccio che, fosse anche solo subliminalmente, finisce col colorare anche la nostra personale visione delle cose. Così come anche l’individuo più ecumenico non riesce a trattenere un brivido di inquietudine quando la notte incrocia sul marciapiede una persona di colore dopo essere stato bombardato per anni dalla retorica razzista di certi partiti, anche il terapeuta più aperto può finire così col dimenticarsi dei buoni propositi di assenza di giudizi di fronte a certe parafilie particolarmente insolite.
Il trucco, quindi, sta tutto nell’essere consapevoli non solo dei propri limiti ma anche dei meccanismi che li definiscono – e nell’impegnarsi a tenerli a bada. Voi come ve la cavate?