Fra scrivere, studiare, l’attività di personal coach, i corsi e un po’ di fondamentale applicazione della teoria, di solito sono piuttosto impegnato. Per questo motivo – e un sano disprezzo per le liti insensate – non do molta importanza ai social network, salvo uno: LinkedIn, dove l’atmosfera di solito è meno tossica e tutto è incentrato sui collegamenti professionali. Credo di essere stato addirittura uno dei primi iscritti, quindi potete immaginarvi il numero di “link” con altri utenti che ho accumulato nel corso degli anni.
Anzi, già che ci siete, immaginatevi pure la mia sorpresa il mese scorso, quando accedendo al sito ho scoperto che il mio profilo fosse stato eliminato.
A essere precisi “il tuo account è stato limitato” perché la mia identità non era stata verificata. Secondo regolamento, per risolvere sarebbe bastato inviare una scansione di un documento di identità con cui dimostrare che il mio nome anagrafico fosse effettivamente ‘Ayzad’.
Solo che – sorpresa sorpresa – non lo è. Lavoro con questo nome d’arte da più di quindici anni e decine di migliaia di persone in tutto il mondo mi conoscono solo così, ma ovviamente non c’è nessuna carta d’identità che vi corrisponda, come minimo perché non ho un “cognome”. Il motivo per cui lo ho scelto mi viene chiesto spesso e potete leggere la risposta completa in molte interviste, ma il succo è questo: prima dell’attacco alle Twin Towers un nome orientale suonava figo; all’inizio volevo tenere la mia identità kinky separata da un’altra vita professionale; e soprattutto, ci tengo a proteggere me e le persone che amo da fanatismi facilmente prevedibili. Inoltre ritengo che scegliersi la propria identità costituisca un importantissimo gesto di liberazione dal ruolo di figli di qualcuno per affermarsi come persona indipendente, ma quella è una fissa solo mia. Ciò che viene invece ampiamente condiviso è che scrittori, artisti e creatori di contenuti possano farsi universalmente conoscere tramite pseudonimo: i dettagli potete chiederli a Sting, Lady Gaga, Carlo Collodi, Emilio Salgari, Stan Lee, Voltaire, Bono, Vin Diesel, Totò, Cicciolina, Caparezza o infiniti altri.
Così, dato che sono ampiamente noto come Ayzad e ho parecchi modi per dimostrare di essere davvero me stesso, ho educatamente spiegato la situazione. Dopo aver cercato dappertutto un contatto col servizio di assistenza che non fosse nascosto – ovvio, no? – a chiunque non fosse già un membro verificato.
[Trad. – Salve, mi chiamo XXXYYY, sono da molti anni un membro di LinkedIn e da ormai 15 anni lavoro sotto lo pseudonimo letterario di ‘Ayzad’. Ho appena scoperto che il mio profilo è stato sospeso ‘fino a identificazione tramite documento d’identità’, ma naturalmente i miei documenti non sono stati emessi col nome d’arte. Posso fornirvi letteralmente migliaia di prove di essere davvero io tramite ciò che faccio online, attraverso contatti professionali, identificazione del viso… tutto quel che vi pare, tranne un documento d’identità istituzionale.
Oltre che per le ricadute professionali, all’essere stato oggetto di attacchi, aggressioni e altro per via del mio lavoro di attivista per i diritti LGBT, cambiare nome sul profilo non è accettabile. Vi prego di suggerirmi come procedere per riportare online il mio profilo di LinkedIn. Grazie per l’aiuto.]
Che ha prodotto la seguente risposta
[Trad. – Salve, XXXYYY. Mi scuso per averci messo così tanto a rispondere e grazie per la pazienza. Nella sezione ‘Cosa fare e non fare’ dell’Accordo con l’Utente di LinkedIn hai accettato di usare il tuo vero nome sul profilo. Sappi che il tuo account è stato creato in violazione dell’Accordo e che verrà bloccato in via permanente. Grazie per la collaborazione. Saluti.]
A questo punto vi invito a continuare fino alla fine della corrispondenza, perché si fa interessante. Qui il punto non è neanche la risposta di vaffanculo automatica riservata agli stimati clienti di LinkedIn, ma le implicazioni dell’essere costretti a sottostare a una politica tanto scombinata (che peraltro non sono nemmeno sicuro sia la stessa di quando mi ci iscrissi). Così ho cercato di spiegarmi meglio…
[Trad. – Grazie della risposta, che naturalmente dal mio punto di vista è insoddisfacente. Più nello specifico, pur comprendendo il principio di fondo:
1) Usare uno pseudonimo ufficiale, stampato su decine di migliaia di libri e adottato da più di una dozzina d’anni in pubblico, su pubblicazioni professionali, eccetera, equivale alla mia identità ufficiale. Suppongo che non chiudereste gli account di autori quali Dr. Seuss, Mark Twain o George Orwell, o di gente tipo Sting, Madonna, Nicholas Cage o Lady Gaga siccome non corrispondono a quelli sulla loro carta d’identità, no? Questa è precisamente la stessa situazione.
2) Impedirmi di utilizzare la mia identità commerciale su un sito orientato al business influisce gravemente sul mio lavoro. D’altro canto non consentire a un legittimo utente di usare la vostra piattaforma non può che essere contrario alla mission dell’azienda.
3) Una delle ragioni (ma non la sola) per cui opero sotto pseudonimo è l’essere un attivista per i diritti LGBT in un paese in cui tale attività espone al rischio di attacchi e violenze, di cui sono già stato vittima diverse volte. Mi pare che LinkedIn non supporti la discriminazione né desideri mettere in pericolo i propri utenti, eppure ciò è precisamente ciò che accadrebbe se usassi la mia identità anagrafica nel profilo.
Vi invito di conseguenza a riconsiderare la nostra corrispondenza nell’ottica di quanto sopra, sapendo che posso fornire ampie prove di essere davvero me stesso. Grazie per il vostro aiuto.]
…ma in cambio ho ricevuto solo un’altra risposta automatica, persino più maleducata della prima.
Nelle settimane seguenti mi sono rivolto al management italiano di LinkedIn per avere assistenza o quanto meno per discutere la questione, e poi al loro quartier generale europeo. Tutte le comunicazioni sono cadute nel nulla, e a tutt’oggi resto escluso da quella che è indiscutibilmente la piattaforma di business più importante al mondo.
Purtroppo non si tratta di un caso isolato. Molti social network e perfino alcuni forum spingono da anni per imporre una politica di “solo nomi reali”: l’obbiettivo ufficiale è impedire comportamenti illegali sulle loro piattaforme, mentre lo scopo più concreto è poter profilare meglio gli utenti per poter vendere dati più precisi ai loro vero clienti, cioè gli inserzionisti. Potrebbe anche trattarsi di un compromesso accettabile, se non finisse col causare numerosi problemi.
Diciamola tutta: la mia disavventura come scrittore si potrebbe archiviare sotto ‘problemini statisicamente improbabili e facilmente risolvibili’, se solo i ticket di assistenza venissero gestiti da veri esseri umani. La questione più importante è tuttavia la sicurezza personale di varie categorie di utenti, perché in certi casi divulgare il proprio nome può comportare conseguenze molto serie – o addirittura letali.
Pensate a un antagonista politico che usi Internet per criticare democraticamente un regime oppressivo; pensate a una minoranza laica che viva in nazioni che impongono una religione di Stato; pensate agli attivisti sociali che combattono poteri ingiusti; pensate a persone di discendenza etnica straniera che operino in società razziste. Pensate, già che siamo su questo sito, a chi viene discriminato per via della sua sessualità.
Il tipo di caso al quale si pensa subito sono le persone transessuali che non hanno ancora completato la transizione legale o non vogliono farlo, il cui nome registrato non corrisponde affatto alle loro identità. Per questi individui essere di tanto in tanto costretti a firmare documenti ufficiali col nome originario è un fastidio giustificabile; vedere esposta l’identità che hanno tanto lottato per modificare ogni qual volta interagiscano online equivale invece a una persecuzione. Ma c’è chi se la passa molto peggio.
Vi ricordate di quella volta in cui Facebook voleva che un attivista gay etiope si lasciasse incarcerare per 15 anni tanto per assecondare la sua politica sui nomi reali? O della sua più recente minaccia di pretendere che appiccichiate una vostra foto del viso ‘riconoscibile’ a fianco di ogni dichiarazione, tipo per esempio «mi infastidisce che squadristi neonazisti facciano agguati ai miei vicini di casa, irruzione nelle loro abitazioni, li pestino e imbarazzino di fronte al mondo». Quale pensate che sarebbe la conseguenza più probabile? Oppure diciamo che siete donne che mettono in discussione il partriarcato in paesi estremisti in cui esprimere certe idee ti può far linciare per stregoneria. Non è che un filo di anonimità online in più potrebbe fare comodo? No, dico… è una cosa talmente ovvia che perfino gli assassini del Ku Klux Klan sono arrivati ad auspicarla!
In realtà si tratta di una questione vecchia come il cucco. Enti come la EFF si impegnano politicamente contro il divieto di pseudonimi da decenni (ed è gustoso come non sia riuscito a trovare documenti analoghi in italiano). Ma cosa possiamo fare per spingere le multinazionali di Internet a rivalutare regole dettate dall’avidità?
Nel mio piccolo caso, posso scrivere questo articolo per ricordare agli dei di LinkedIn chi sono, e le sgradevoli conseguenze di occuparsi di sessualità alternative in un paese cattolico e criptofascista. Tipo essere insultati a mezzo stampa per cinque mesi di fila per avere accettato l’invito di un’università a tenere una conferenza sul BDSM, perfino da importanti politici. Oppure possono leggersi l’interrogazione parlamentare con cui un senatore – noto per avere ripetutamente cercato di reistituire il Partito Fascista in Italia – ha sfruttato un altro mio intervento accademico, dandone una descrizione immaginaria per cercare di vietare che gli atenei trattino sessualità non normative. E vi risparmio i dettagli su altre minacce e aggressioni.
Quel che posso fare è dichiarare che LinkedIn stia consapevolmente discriminandomi attraverso il divieto di usare una importante risorsa globale per il lavoro a meno che non metta a repentaglio la mia sicurezza personale – per non parlare dell’assurdità di pretendere che mi presenti con un nome professionalmente irriconoscibile. Avendo loro esposto i dettagli del caso, insistere nell’applicare rigidamente una politica conto l’uso di nomi d’arte equivale alla volontà esplicita di danneggiarmi – e danneggiare chiunque altro si trovi in condizioni analoghe.
Sinceramente non mi aspettavo di dover portare la questione in pubblico per vederla riconoscere. Ma fino a che non la smetterà di negarmi quello che alcune corti hanno stabilito essere un diritto universale, il management di LinkedIn non ha certo il diritto di restare al riparo dalle lamentele.
AGGIORNAMENTO – Sei mesi e infiniti appelli dopo, LinkedIn mi ha poi riattivato l’account – con la promessa di non bannarlo mai più. Sto studiando il modo migliore per ringraziarli nonostante tenga le dita fermamente incrociate.