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Avete fatto i bulli? Bravih! Ora però facciamo i conti col suicidio di Tiziana Cantone

Quando sul mio monitor è comparso il lancio d’agenzia ammetto di non essere riuscito a fare subito mente locale. ‘Si è suicidata Tiziana Cantone’, diceva, ma visto che le news sono una raffica infinita e anestetizzante di morti e disgrazie varie la mia prima reazione, come quella di tanti, è stata cinicamente blasé: «Mi spiace per lei, ma chi cacchio era?»

Il nome tuttavia mi ricordava qualcosa, e solo associando gli eufemismi usati nel testo della notizia agli eventi di un anno fa ho capito cosa fosse accaduto. La donna in questione era divenuta famosa la primavera scorsa quando online erano comparsi diversi suoi video porno: alcuni dall’aspetto abbastanza professionale, ma uno in particolare così involontariamente comico da essere divenuto virale.
La clip ripresa con un cellulare la vedeva impegnata in una fellatio in automobile così entusiasta da provocare perfino le lamentele di qualche passante. Il momento clou del video arrivava però quando – in mezzo a una sfilza di insulti al fidanzato inconsapevolmente cuckold – lei alzava lo sguardo e dichiarava col fiatone: «Stai facendo un video?  Bravo!” Anzi, ‘bravoh’. Il motivo di tanto successo stava tutto nella buffa pronuncia di quella parola, che aveva reso la frase un meme.

Cosa sia accaduto dopo quell’imprevisto momento di fama lo si è scoperto solo dagli articoli usciti in queste ore, che riportano stralci di atti processuali. Ormai divenuta il bersaglio degli scherzi ipocriti di tutta Italia, Tiziana aveva dovuto lasciare il lavoro presso il locale di proprietà dei genitori in provincia di Napoli ed era fuggita in Toscana. Qui aveva cercato di esercitare il cosiddetto “diritto all’oblio”, ossia la cancellazione di ogni copia del video presente online e di ogni citazione del suo nome ormai celebre. Così celebre da averla spinta a richiedere anche di cambiarlo all’anagrafe per non essere più riconosciuta e associata a quell’episodio tanto imbarazzante.
Il web e la legge italiana avevano tuttavia risposto molto lentamente. Qualche settimana fa pare fossero arrivate finalmente le prime conferme di cancellazione da parte di alcuni motori di ricerca e social network, ma lo stress aveva ormai superato il livello di guardia. Logorata dalle persecuzioni online e dall’idea di un futuro incerto, la donna aveva cercato pochi giorni fa di gettarsi dal balcone. Il secondo tentativo di suicidio, ieri, è stato invece scoperto solo troppo tardi.

Inutile dire che le reazioni dei leoni da tastiera sono state immediate e violentissime. Mi rifiuto di pubblicare i link, ma c’è stato chi ha commentato che “se l’era cercata”; chi ha addirittura espresso gioia per la morte di una “femmina immorale”; chi ha invocato il diritto a rendere pubblico qualsiasi comportamento senza essere giudicati; chi ha offerto convolute teorie complottarde; ma soprattutto infiniti bravissimi genitori, uomini encomiabili e cittadini integerrimi che hanno proposto con la schiuma alla bocca pene esemplari, torture e morte per tutte le “troie” del mondo. Curioso come tutti questi moralisti conoscessero benissimo il contenuto del video. Mah!

Lasciando a codesti deliziosi personaggini l’onere delle polemiche inutili, ciò che mi ha colpito in questo triste episodio è stato come sia avvenuto proprio nel bel mezzo di un dibattito internazionale sul fenomeno dell’esibizionismo telematico. Solo qualche settimana fa il prestigioso quotidiano inglese The guardian si interrogava sull’effetto della pervasività dei selfie sexy fra i giovani: se tutti li fanno, sono ancora sconvenienti o hanno perso ogni valenza scandalosa? La teoria è che oggi un direttore del personale che scoprisse online le foto fetish di un candidato per un lavoro probabilmente ne avrebbe un’impressione negativa, ma per la prossima generazione potrebbe trattarsi di un elemento privo di interesse, al pari di andare in spiaggia con quei bikini che avrebbero fatto svenire le nostre trisavole.
Negli stessi giorni Pamela Anderson, ex coniglietta di Playboy arricchitasi facendo rimbalzare le tette in Baywatch e grazie a un leggendario sex tape, tuonava contro la pornografia sostenendo che le donne debbano affermarsi sfruttando valori diversi dal loro sex appeal. La pornostar americana Asa Akira, in compenso, ha appena rivelato a Vice di essere in crisi: vorrebbe fare un figlio, ma teme di rovinargli la vita per la sua fama di “regina dell’anal”. Gestire le proprie immagini private nell’era di Internet è insomma più complicato di quanto sembri, e anche una preoccupazione diffusa. Non è un caso che il best seller dell’esperta di sessualità Violet Blue sia proprio una guida per ragazze dedicata a questo argomento.

Mentre la discussione in astratto continua, non ci si può poi dimenticare delle sue manifestazioni più concrete. Da una parte abbiamo la severa stretta legale contro il fenomeno del revenge porn, cioè la pubblicazione di foto e video privati su siti concepiti per umiliare le (e gli) ex, o più banalmente per ricattarne i soggetti. Gran parte degli Stati Uniti, l’Australia e il Regno Unito sono all’avanguardia nella lotta contro questa pratica, ma anche il nostro paese sta affinando la legislazione per contrastarla. Il supporto pubblico è talmente compatto da permettere che una ragazzina di 14 anni possa intentare una causa milionaria a un colosso come Facebook per una nebulosa “mancata vigilanza” e avere tutte le carte in regola per vincere.
Al tempo stesso è però in crescita pure il fenomeno dell’esibizionismo estremo via Web, con numerose persone che pubblicano non solo i propri nudi e scatti porno, ma anche i propri dati personali con tanto di documenti per confermarli. La motivazione è indubbiamente di tipo erotico, ma molti (anche in Italia) lo rivendicano come un atto politico, di condanna delle ipocrisie e del business della sorveglianza che ha distrutto il concetto stesso di privacy.

È chiaro come in una situazione storica e culturale così complessa, sfaccettata e dipendente da tecnologie ancora troppo nuove per poterne comprendere pienamente le conseguenze sia impossibile inquadrare del tutto la questione. Sarebbe bello possedere una ricetta semplice per risolvere il problema dell’esposizione – volontaria o meno – online. Per me, nato abbondantemente nel secolo scorso, è naturale pensare che «non bisogna mai salvare su supporti digitali materiale che un giorno potrebbe imbarazzarci», ma riconosco che si tratti di una pesante limitazione della creatività umana, per non parlare di come una soluzione del genere contrasti con la mia convinzione che non ci si debba mai vergognare della propria sessualità.
«Fregatene di quel che pensa la gente» è un motto altrettanto stupido: sessuofobia e discriminazione possono colpire nei modi più inaspettati, come ho scoperto personalmente quando mi sono ritrovato a essere nientemeno che il casus belli di una delirante interrogazione parlamentare volta a vietare la divulgazione scientifica delle sessualità non normative. Se non amo mostrarmi in foto è anche perché a un certo punto mi sono stufato delle minacce (e in un paio di casi delle aggressioni) da parte di fanatici, quindi non sarò certo io a pretendere che la gente si assuma rischi in nome di ideali futili.
Immagino che la risposta giusta stia da qualche parte nel mezzo e sia diversa per ciascuno di noi, a seconda del contesto in cui viviamo e con un occhio di riguardo a come potremmo vivere in futuro.

Tornando alla notizia, nessuno sa nemmeno come sia andata davvero la storia di Tiziana. Quel famigerato video virale è davvero stato pubblicato per errore o si è trattato di un gioco esibizionistico consapevole che è poi sfuggito di mano? Qualcuno ha scritto che gli altri video facessero pensare a un tentativo di debutto nel mondo del porno su cui vi sia poi stato un ripensamento tardivo. L’unica certezza è che nessuna innocua bravata erotica dovrebbe venire scontata con un prezzo così alto.

In mezzo a tante incognite sulla donna, sui video, sul fenomeno in generale e sul futuro della comunicazione digitale, di sicuro c’è in effetti anche qualcos’altro. Qualcosa su cui tutti noi abbiamo e abbiamo sempre avuto il completo controllo.
Mi riferisco alla semplice, banale buona educazione. O, se questa vi suona troppo antiquata, al più basilare rispetto fra esseri umani. Comunque la si voglia vedere, è indubbio che non ci fosse alcun motivo per trasformare uno sciocco incidente di percorso in un’incessante tortura psicologica per la sua protagonista.

Non sto parlando delle battute fra amici o del condividere con loro un link. Quelli sono comportamenti quasi inevitabili nel Villaggio Globale, sarebbe da ipocriti negarlo. Però sono ben diversi dallo stalkeraggio che pare avere subito Tiziana nella sua città, con continui insulti a lei e ai suoi famigliari. Oppure, restando in ambito virtuale, dal mezzo milione di pagine web che secondo Google sono dedicate al tormentone del ‘bravoh’; dai 146.000 video che contengono quella frase nel titolo; dalle parodie più becere e dell’accanimento cacciaclic continuati anche quando si era ormai diffusa la notizia della fuga disperata della donna.
Prendersela con chi ha letteralmente i pantaloni calati e supplica di essere lasciato in pace, perseguitare qualcuno per le sue preferenze sessuali, reagire a un po’ di innocuo esibizionismo con tanta cattiveria e mancanza di rispetto non è un gioco. È bullismo. Non c’è alcuna scusa che possa giustificarlo.

In attesa che il mondo si evolva e impari a rassegnarsi all’esistenza della sessualità, magari potremmo tutti ragionarci su e cominciare la nostra, di evoluzione.

 

 

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