Comunque la pensiate sulla storia di Wikileaks, non c’è dubbio sull’importanza storica delle azioni del soldato Manning. Avere pubblicato documenti ufficiali di discutibile moralità ha costretto il mondo intero ad affrontare questioni fondamentali quali i diritti umani e dei cittadini, la privacy personale, l’influenza delle multinazionali sulle scelte dei governi, la trasparenza, la diplomazie, le regole d’ingaggio in guerra e molto altro ancora.
Ciò che è tuttavia passato sotto i radar sono le implicazioni del colpo di scena finale di Manning dopo la sua sentenza. Quando il soldato degradato con disonore ha annunciato di soffrire da sempre di disforia di genere e la conseguente decisione di abbracciare definitivamente la propria identità femminile col nome di Chelsea, media e pubblico hanno reagito per lo più con divertito stupore. Dichiarazioni quali «Non mi preoccupo di essere messo in prigione per il resto della vita né di venire fucilato, se non per la possibilità che i mass media di tutto il mondo pubblichino le mie foto… nei panni di un ragazzo» sembravano solo un tassello triste e bizzarro da aggiungere al già complesso puzzle del processo del secolo. Se escludiamo l’interpretazione cinica di una scelta insincera da sfruttare al momento della richiesta di grazia presidenziale – possibilità confutata da molte prove passate – la nuova identità di Manning comporta però varie conseguenze interessanti.
La prima e più importante è una sfida aperta alle chiacchiere tradizionalmente vuotesulla parità di diritti per le minoranze sessuali nell’esercito e, per traslato, nelle istituzioni e nella società. Benché le prigioni militari tecnicamente forniscano assistenza medica e psicologica ai detenuti, è improbabile che Manning riceva la terapia ormonale necessaria per supportare la sua scelta di vita – e men che meno gli interventi chirurgici di riassegnazione. Negare trattamenti medici a un prigioniero… cosa ci dice dei diritti umani?
Nemmeno io ho una risposta chiara, però ho delle statistiche – e sono piuttosto preoccupanti. Uno studio del 2009 dice che il 59% delle persone transessuali detenute in istituti di pena maschilli (com’è il caso di Manning) vengono abitualmente stuprate, e che esattamente lo 0% di esse ha mai ricevuto aiuto dalle guardie. Nessuna di loro aveva tuttavia un nome noto ormai in tutto il mondo, né poteva vantare legioni di Assange e Snowden che tenessero i mass media informati sulle loro condizioni.
Qualunque cosa il futuro riservi per Chelsea Manning, il suo ruolo nella lotta globale per l’accettazione e l’uguaglianza delle sessualità insolite non può essere sottovalutato – e scommetto che nei prossimi mesi sentiremo parlare di lei abbastanza spesso.