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Coccole e frustate: una serata particolare

Questo articolo è stato pubblicato in origine da BizzarroBazar:la festa cui si riferisce è Sadistique, l’evento che organizzo tutti i mesi da quindici anni a Milano. Ringrazio tantissimo Ivan per una testimonianza così sottile e attenta di un luogo che è obbiettivamente difficile descrivere a parole, e che non vedo l’ora possa riaprire appena passata l’emergenza per la pandemia di COVID-19.

A novembre dell’anno scorso sono stato invitato al Sadistique, il party BDSM organizzato dall’amico Ayzad. Ho parlato di “erotica del martirio” di fronte a una folla attenta, variopinta e semisvestita, nella stanza stile dungeon dove a fine conferenza – molto appropriatamente – sarebbe stata montata una croce di Sant’Andrea.
Ho rimuginato a lungo sulla possibilità di raccontare quella serata; ci vorrebbe una scrittura all’altezza, perché lì dentro era tutta questione di atmosfera, e renderla palpabile va al di là delle mie povere doti letterarie.
Alla fine, visto che questo blog è comunque un diario delle mie esplorazioni, ho deciso di trascrivere gli appunti presi a caldo quella sera, così come li avevo annotati sul mio taccuino una volta tornato all’hotel. Avevano già un abbozzo di forma, anche se non raffinata come avrei preferito, quindi li pubblico qui senza troppe revisioni.
(Le foto, tutte provenienti dal sito di Sadistique, sono NSFW. Per i pochi termini tecnici che trovate qua e là, rimando al Glossario BDSM redatto da Ayzad.)

Il primo, intenso sovraccarico sensoriale di cui mi rendo conto è quello sonoro.
Costante, incessante sinfonia di schiaffi e grida, un torpore narcotico, come quei dormiveglia in cui gli ormoni mattutini suggeriscono visioni solo vagamente erotiche, in realtà più sotterranee. Lo schioccare sincopato delle fruste, gli urti secchi dei paddle e delle mani nude che battono sulle natiche e sulle gambe, ipnotici quanto la mia memoria dei tamburi africani – la notte che negli slum di Dar-Es-Salaam incontrammo quella donna posseduta da un demone. La reiterazione induce la trance: terga e schiena e schiena e terga – punti colpiti ancora, ancora, ancora. Sempre quelli. Anche quando si vuole fantasioso, il sesso è sempre ripetitivo. Variazioni a prima vista molto, molto sporadiche: però cambiano gli strumenti, e il pubblico avveduto sa riconoscere la progressione, gustare l’effetto, sa bene la differenza nelle sensazioni. (Nota: ogni sadico si identifica nella vittima, o non proverebbe alcun piacere dall’infliggerle una pena; ogni masochista si identifica nel carnefice, o non godrebbe nel vedere sé stesso così umiliato e ferito.)

Arena centrale per i giochi “pubblici”, con tanto di spettatori. In realtà quasi tutte le sessioni, anche quelle sui divanetti appartati, si guadagnano il loro gruppetto di ammiratori. Ma sul palco centrale si presentano i più esibizionisti, o perlomeno i più sicuri di sé. Tocca davvero esserlo, sicuri di sé, perché il pubblico non resta solo a guardare, tra di loro gli spettatori giudicano le performance, fanno considerazioni tecniche manco stessero commentando i gol della domenica. «Guarda lì, quel nodo non va fatto così, dico io, almeno allentalo durante la transizione!» «Questo flogger non devi perdertelo, ha un polso meraviglioso. A quel livello lì mica ci arrivi in un mese.» «A me il caning fatto così, solo per far male, non dice nulla. Dov’è finita la poesia?»

La cosa più disarmante: l’alternanza costante di dolcezza e brutalità. Brutalità somministrata come parte di un cammino fatto assieme – anche se solo per un quarto d’ora, per il tempo d’una sessione – esplorazione e alterazione dello spaziotempo… Tre frustate ben assestate, poi il dom si avvicina al sub e lo carezza, gli sussurra all’orecchio, si accerta di star procedendo nella direzione giusta. Vuole l’intesa più precisa possibile, perché si va avanti solo in due, entrambi uniti affinché la soddisfazione sia reciproca. Chiede se è troppo o troppo poco. Come il fremere indeciso della bacchetta da rabdomante, qui si va in cerca della vena nascosta del desiderio. Su un divano poco distante va avanti da quasi mezz’ora una scena di spanking estremo: «Mi lasci dartene un’ultima, con tutta la forza?» «Con tutta la forza no…» (Lei sta già quasi piangendo, si contorce, le natiche segnate da cui spillano due o tre gocce di sangue a imperlare i lividi violacei.) «Metà forza, posso?» «Metà. Ma solo una volta.»

Un uomo sta spiegando a una ragazza il modo in cui dovrà saltargli addosso, quando lui sarà sdraiato a terra. «Qui e qui», le mostra il torso nudo. «Non qui.» Lei è titubante, terrorizzata all’idea di rompergli una costola. «Numero uno: se ti dico di saltare sulla mia pancia o sul petto, è perché so che non mi farai male. Numero due – qui lui abbassa la voce e le si avvicina, così facendo si avvicina anche a me che dunque sento bene ciò che le sussurra – ricordati che tu per me sei un regalo.» Lei comincia a piangere di commozione. Salterà su di lui più volte, dall’alto di uno sgabello, affondando i calcagni nel ventre.

Serata non priva di accenti grotteschi. Anche il Comico ha diritto di cittadinanza – non potrebbe essere altrimenti, in un luogo mentale talmente in bilico sul ciglio del precipizio.
Adoro quando, anche al master più esperto, un colpo non va a segno. La frusta si gira male e colpisce il pavimento; il nodo si ingarbuglia e tocca rifarlo; uno scudiscio vibrato in aria arriva troppo vicino a uno spettatore («Ehi, sta’ attento!»). Momenti umanissimi: contrasto meraviglioso tra l’aria generale che si vorrebbe sofisticata – siamo a Milano dopotutto – e l’affiorare del carnascialesco.
La ragazza appariscente indossa una maschera fetish con cerniera che copre la bocca, si avvicina al bancone. Il barista: «Cosa ti do?» «Mmmfmmmfmsssmchhh», risponde lei. (Devo allontanarmi per non scoppiare a ridere.)
Comicità involontaria ma pure volontaria: mi si racconta di una leggendaria sessione in cui la safeword era il verso del pollo, con tanto di movimento dei gomiti, QUACK!

Il gentiluomo che si presenta a una coppia chiedendo se può far loro da poggiapiedi. «Ma cosa dobbiamo fare?» «Niente, mi sdraio qui, mi mettete i piedi sopra, ogni tanto tirate il guinzaglio, e basta.» Dopo dieci minuti di questo trattamento il signore si alza, ringrazia cortesemente, e va via.
E questo sketch, con il suo asciutto surrealismo, mi spinge a un’altra considerazione.
L’uomo sotto i piedi della coppia ha mantenuto tutto il tempo un contegno, un’aria seria e discreta distante anni luce dagli schiavi sbavanti e arrapati alla Tokyo Decadence. Non saprei nemmeno dire se si è eccitato. In effetti nelle aree comuni capita solo poche volte di vedere del sesso vero e proprio (ci sono i privé per quello); eppure tutto è sesso. «Io sono specializzato in knife e cutting, mia moglie invece è un’artista degli aghi.» E infatti poco dopo eccola che punzecchia un dito a un cinquantenne coi mustacchi da hipster, lentamente, più volte. Lui seduto lì, come al bar, con un cocktail in una mano e una signorina che gli infila un ago a fondo nell’indice dell’altra mano. Ecco, si può chiamare sesso, questo? Non ne ho idea. Forse lo è senza esserlo.

Mi avvicina una avvenente fanciulla praticamente nuda.
(Non sono uno di quei maschi che di fronte a una scollatura hanno sempre l’occhietto calante, ma mi domando: in una situazione del genere, sarebbe considerato scortese come accade nel mondo là fuori? Qual è la regola sociale, qui?)
Chiacchieriamo del più e del meno, mi racconta della tesi di laurea che sta ultimando, e mi dice: «Tocca pianificare». Per lei è essenziale separare queste serate dagli impegni sentimentali, mi spiega. Fa solo corde e frusta, ma quest’ultima sempre e soltanto con lo stesso partner di cui si fida. Le chiedo qual è la frequenza. «Le corde se potessi anche una volta alla settimana. La frusta no, una volta al mese, perché poi devi riprenderti e devono sparire i segni. Per questo dico che va pianificata bene. Perché se esci con un ragazzo poco dopo la sessione, e le cose si fanno romantiche, magari ti trovi a dover spiegare il perché di quei segni, e finisci per sembrare matta.»

Il mio ospite, nella sua opera di divulgazione delle sessualità alternative, parla spesso di come in un ambito in cui in maniera consenziente ci si provoca dolore l’un l’altro, la “cultura del rispetto” sia ancora più congenita che nella vita sessuale normale/normativa. Qui tutto mi pare confermare quest’idea.
Avventori multietnici, di ogni estrazione sociale, orientamento sessuale, genere o genderbending, età, struttura fisica – disabilità incluse. Outfit griffati fianco a fianco con soluzioni di abbigliamento assolutamente proletarie. Corpi da copertina di Vogue, ma qui anche la pelle adiposa o avvizzita è considerata bella – alla fine non importa che aspetto hai, finché sei bravo a maneggiare una frusta o a sopportarla.
Suppongo che la tanto sbandierata e un po’ fastidiosa “esclusività” dell’evento, di cui discutevo l’altro giorno con M., sia più che altro una dovuta facciata; perché a conti fatti il livello di inclusività mi pare invece molto buono. Vedo perfino un tizio in jeans, anche se chiaramente l’estetica dominante è quella fetish, tutta borchie e lattice, forse un po’ trita e risaputa ma ormai una sorta di divisa di questa sottocultura.

Penso a quanto l’immaginario BDSM sia ambiguo, complesso – mai fare l’errore di prenderlo at face value: echi di schiavismo, prigionie, torture reali… Ma si tratta, appunto, di immaginario. Di fantasmi. E cosa sono le fantasie erotiche se non un modo di metabolizzare l’Osceno – quando non addirittura un trauma sociale – v. i Nazi porno.
Traslare paure, pulsioni inconfessabili e orrori reali nel mondo della rappresentazione, dei simulacri. Messa in scena dell’osceno. (Per questo la maggior parte della letteratura erotica è fatta di personaggi-funzione, figurine bidimensionali, marionette da spostare e ricombinare a piacimento.)

Guardo una donna chiusa in una gabbia. Un corpo femminile nudo lì dentro sarebbe un’immagine terribile, se fosse vera. Invece è quello che tutti qui chiamano un “gioco” (la messa in scena, appunto): la donna nella gabbia non è affatto una vittima, la pantomima non ha nemmeno i caratteri dell’umiliazione; viene carezzata da tre o quattro persone, uomini e donne, con delicatezza – ed è lei che scosta una mano troppo impertinente, è sempre lei che decide i tempi e i modi, protagonista di questo tableau teatrale in cui si compiace di immaginarsi vittima sacrificale, o Dea in cattività.

Un “gioco”. «Andiamo a giocare». Non fanno che ripeterlo tutti, ma sarà poi davvero solo gioco?
Certo, ci sono i momenti da circo – alle volte sembra di aggirarsi tra i carrozzoni di un sideshow. Non ci sono i mangiatori di fuoco, ma ci sono i fachiri: un uomo ha tre bottiglie da due litri ciascuna appese allo scroto (nota: sembra sentire più male quando le tiene ferme, quindi fa un movimento oscillatorio ad altalena mentre la sua mistress lo colpisce con il frustino).


C’è tutta la pittoresca panoplia che ci si aspetterebbe: ci sono le donne appese a testa in giù (altra nota: mi torna in mente Soter Mulè in televisione, accusato di essere responsabile della morte della ventitreenne Paola Caputo durante una sessione di shibari estremo, quando la Leosini alla ricerca del pruriginoso lo bersaglia: «Lei cosa trova di eccitante in una donna legata come un salame?», e il poveretto che cerca di mantenere toni pacati in quel massacro voyeuristico risponde sottovoce: «Se è legata come un salame, niente»), ci sono uomini calpestati da tacchi a spillo, cera multicolore fusa su seni e genitali, schiavi e schiavette, lacci e laccetti, collari, guinzagli e gente a carponi.

Però poi vedo questa coppia, due giovani di una bellezza accecante, lei legata con le braccia sopra la testa a un praticabile… una molletta la obbliga a tenere la lingua fuori dalla bocca… lui con la cintura le batte la schiena e le natiche sempre più forte… il ragazzo è metodico e inespressivo, sembra quasi un automa concentrato sul lavoro. Lei ansimante tiene gli occhi chiusi, non li apre mai, nemmeno quando lui si avvicina per dirle qualcosa all’orecchio (da quello che riesco a sentire – sono molto vicino – sembrano frasi di incoraggiamento). La molletta la costringe all’umiliazione di un costante filo di saliva che scende sui seni nudi, e che lui ogni tanto asciuga con gesto clemente. Il corpo è un diapason, e per farlo risuonare va portato all’estremo. Curioso animale, il primate uomo. Come vorrei nascondermi dietro i loro occhi, capire cosa sta succedendo nel loro sistema nervoso: questa punizione pubblica è una performance, un rituale, un passatempo, un esercizio di ginnastica? Un semplice modo di essere e di esprimersi? O è davvero quello che sembra, cioè un momento intimo di trascendenza della/nella carne, un abbandonarsi totalmente l’un l’altro?
Tutta questa strana folla, sempre così sicura di ciò che vuole o non vuole, fino al minimo dettaglio contrattuale, quanto è conscia di ciò che cerca?

Alla fine della sessione, ogni tanto c’è un pianto liberatorio. Le coccole, gli abbracci, le parole mormorate, «tu sei un regalo»… altri invece ridono, chiacchierano, vanno a fare la pausa sigaretta nella saletta fumatori.
Proprio lì ritrovo un pensionato con cui ho già parlato a inizio serata, 67 anni, ex-impiegato in una ditta di fotocopiatrici. Adesso sta accarezzando le spalle della moglie. Esamina con tenerezza le striature che poco prima, sferzandola, ha impresso sulla sua pelle, come se quelle lingue arrossate fossero un’opera d’arte astratta. Le sussurra: «Sembri un tigrotto». La faccia di lei si illumina, e sorridono entrambi.

Ecco forse la cosa più sorprendente.
In un simile caleidoscopio di morsetti, staffili, corde, lividi, bacchettate, urla – e quel soporifero suono senza tregua degli schiaffi – non ho visto traccia di crudeltà.

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