Qualche giorno fa passeggiando per Milano ho avuto la bella sorpresa di scoprire un cantiere al lavoro per la ristrutturazione dell’albergo diurno Venezia. L’entusiasmo non deriva da una perniciosa trasformazione in umarell, ma dal fascino anacronistico di un luogo che mi aveva sempre colpito per quanto fosse “fuori posto” rispetto al resto della città. Ancora negli anni ’90 il fatto che si nascondesse proprio sotto la piazza italiana con la più alta densità di edicole specializzate in riviste a tema BDSM alimentava fosche fantasie sulla sua clientela passata – ma la realtà è che l’ho sempre visto ridotto quasi a rudere, lontanissimo dai suoi antichi fasti.
Proprio quell’aura di mistero e tragedia aveva fatto guadagnare al “Diurno” un ruolo da comparsa anche nel mio romanzo Peccati originali, che del resto è incentrato proprio sulla scoperta di ciò che si nasconde dietro le apparenze della quotidianità. In attesa di potere visitare i suoi locali rinnovati, ecco il brano che lo riguarda:
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Lady Myrta scese alcuni gradini della scala che conduceva alla stazione della metropolitana e si fermò incerta a studiare l’apertura sulla sua destra. Il luogo dell’appuntamento con la dominatrice amica di Zero le era stato descritto come una galleria d’arte, ma al di là della serranda metallica sembrava esserci solo un cantiere abbandonato. Avvicinando il viso per guardare meglio venne colpita da un pesante odore di umidità e muffa, eppure sapeva di non essersi sbagliata: per quanto la città continuasse a confonderla, quello era proprio l’ingresso indicatole. Con gli occhi che cominciavano ad adattarsi al buio le parve di scorgere, sul fondo, una debole luce tremolante. «Estrella!» provò a chiamare.
«Hola» le fece eco una voce di donna, «arrivo subito, tesoro! Entra pure, il cancello è aperto… Vado ad accenderti le luci!» Il forte accento spagnolo cancellò ogni dubbio su chi si trovasse all’interno. La ricercatrice fece un respiro profondo, cercò un punto non troppo impolverato da cui afferrare la grata d’acciaio e con uno strattone la fece scorrere lateralmente aprendosi un passaggio.
Pochi istanti dopo numerosi faretti colorati entrarono in funzione rivelando i resti di un salone rettangolare che nel passato doveva essere stato piuttosto elegante. Come in una chiesa, due file di colonnine dividevano l’ambiente in una navata centrale affiancata da corridoi laterali più piccoli che ospitavano una successione di nicchie in gran parte invase da detriti e calcinacci. I lucernari tondi al centro del soffitto erano anneriti dal tempo: tutta l’illuminazione veniva da lampade a treppiede dall’aspetto un po’ instabile, a metà strada fra gli impianti di fortuna degli scavi archeologici e un set fotografico. I loro riverberi arancione, verde e viola rendevano l’ambiente ancora più surreale, ed erano puntati su oggetti non meno strani disposti in corrispondenza delle colonne.
Ciascun pilastro era infatti affiancato da tre capsule cilindriche alte circa un metro e mezzo, chiuse alle estremità da massicce valvole industriali. Il corpo principale era trasparente e pieno di un liquido torbido in cui galleggiavano oggetti molto diversi fra loro. Lady Myrta riconobbe le mostrine di un’uniforme militare, un crocifisso, delle banconote, le foto di un incontro fra uomini di stato, un televisore portatile…
«Ti piace?» la fece sobbalzare l’altra donna sbucando con una torcia in mano da dietro gli specchi che chiudevano il fondo del locale, facendolo apparire ancora più grande. «Si chiama Dittature in formalina: debuttiamo domani».
«Be’… È molto particolare» azzardò in risposta Myrta, gli occhi stretti per il bagliore della pila. «Piacere di conoscerti, Estrella».
Con un tintinnio di bracciali la spagnola abbassò il fascio luminoso. Il viso che comparve, incorniciato da una folta permanente nera, era curato e truccato con una tale attenzione che avrebbe potuto avere qualsiasi età fra i venticinque e i quarantacinque anni – così come il corpo decisamente atletico, che comunque poteva contare sull’aiuto di un twinset perlato dal taglio perfetto. «Estrella era il nome che usavo con i clienti, quando ho conosciuto il tuo perrito» puntualizzò fermandosi come in posa, con la testa un po’ inclinata e un sorrisetto fintamente ingenuo dipinto sulle labbra. Poi un battito di ciglia, uno svolazzare leggero della mano e i movimenti ripresero con la stessa affettazione da diva. «È roba vecchia, scartata. Il mio nome vero è Miranda. E tu sei…?»
«Benedetta, piacere».
«Piacere mio, tesoro» le strinse la mano sprizzando allegria. «Scusami se non sono venuta alla porta: quegli scemi degli operai non avevano collegato il quadro di controllo e ho dovuto pensarci io. Mi manca solo una cosa e poi possiamo andare a prendere un aperitivo insieme. Vieni con me». Benedetta la seguì quasi di corsa attorno a una pozza fangosa formatasi dove il pavimento a mosaico aveva ceduto imbarcandosi. L’ex dominatrice camminava nello stesso modo in cui parlava: con molta energia e una certa fretta, che rendevano impegnativo tenerle dietro.
«Non sapevo che fossi diventata un’artista».
«Perché non lo sono: faccio allestimenti per mostre e gallerie. Questo negli anni Trenta era un bellissimo albergo diurno, ma l’hanno lasciato cadere in condizioni miserabili e tra poco finiranno di demolirlo. Visto che nessun altro lo amava più» illustrò mentre regolava in altezza uno dei cavalletti, «ho pensato di regalargli almeno un ultimo momento di gloria. Però io tra quaranta minuti devo essere a un appuntamento e tu non sei venuta a parlare di esposizioni, perciò dimmi: come mai ti interessa sapere delle prodomme?»
L’altra si allontanò schifata da tre preservativi colorati che parevano nuotare come meduse nella formaldeide di una capsula. «Come ti ho detto al telefono ho visto tutte quelle inserzioni e mi sono incuriosita…»
«No, voglio dire: è una intervista o vuoi farne il tuo lavoro?»
«A essere sincera non lo so ancora. Mi sembra una cosa interessante e i guadagni di cui ho sentito parlare sono fantastici, ma prima vorrei capirci qualcosa di più».
Miranda le si parò davanti, le afferrò le braccia e la guardò seria. «Allora ascoltami, Benedetta. Se è il denaro che vuoi non ti complicare la vita con quel mestiere là: ci sono modi molto più semplici per diventare ricca».
«Per esempio?»
«Il modo più vecchio del mondo» fece spallucce la gallerista spalancando gli occhioni verdi e recuperando il suo atteggiamento sopra le righe. «Fai come me: ti tiri un pochino a lucido, sposi un uomo di successo e fai la moglie porca a letto e impeccabile in società. In cambio ti fai regalare un bel lavoro, una casa e sei a posto per tutta la vita. Si risparmia tanta fatica, ti assicuro». La reazione suscitata dalle sue parole fu così palese da farle subito aggiungere: «Che c’è? Delusa?»
Benedetta si sciolse dalla stretta, incupita. «Be’, non è proprio il consiglio che mi aspettavo, anche se non faccio fatica a crederti».
«Se vuoi ti dico che fare la prodomme è la cosa più semplice del mondo, che non ci vuole niente e vissero tutti felici e contenti, sì? Lo pensavo anche io» raccontò la donna intanto che si avviavano all’uscita, «ma per quanto mi piaccia dominare gli uomini, dopo cinque anni di quella vita ho rinunciato. La verità è che si tratta di un lavoro vero, dove devi starci tutto il giorno con la testa e impegnarti come una manager, forse anche di più». La durezza esotica delle sue erre, le esse sibilanti e una strana incertezza con le consonanti doppie sembravano essersi fatti, se possibile, ancora più marcati.
«Con quello che ho sentito raccontare di te credevo fosse stata un’esperienza più piacevole».
«Tesoro, non è che non mi sia piaciuta, anzi. Ma io in Italia ero venuta per specializzarmi in arte rinascimentale dopo la laurea, non per diventare la Domina Estrella. Mi è servito per sopravvivere, e anche bene, ma quando ho avuto l’occasione di sistemarmi e tornare ai miei veri interessi l’ho presa al volo. È per questo che ti ho chiesto cosa è che cerchi davvero nella vita».
L’altra restò in silenzio per tutto il tempo necessario a chiudere la serranda dietro di loro, risalire in strada e accomodarsi al bar sull’angolo del grande corso su cui si trovavano. Quando rispose era ancora pensierosa, ma molto meno indispettita. «Non so cosa dirti. Adesso come adesso mi basterebbe un po’ di stabilità… però non è solo per i soldi. Vedi, gioco a fare la padrona da sempre ma ora che ho visto che si può vivere davvero così, non solo per poche ore, non riesco a pensare ad altro. È quello che ho sempre sognato sin da bambina, capisci?»
«Certo che capisco. Dico solo che devi chiederti quanto è importante il sadomaso per te. Io penso che se non è fra le tre cose che ti piacciono di più nella vita è meglio se lasci perdere».
«Oh, per questo non credo proprio di avere problemi. Però non ho capito perché mi vuoi convincere a rinunciare. È per la malavita?»
«Con quella non ho mai avuto guai: basta avere cervello per restare lontane da quel giro. No, è che devi capire che essere padrona di professione non è come giocare col tuo uomo, ma una cosa completamente diversa. Le professioniste non dominano: sono attrici che interpretano il ruolo che vuole il cliente. Tu ascolti le loro fantasie, le rendi fattibili e realizzi i loro desideri, anche se l’impressione è che sei sempre tu a comandare. È un lavoro da psicologhe, non da ninfomani».
«Non l’avevo mai vista da questo lato» concesse Benedetta. «Sembra interessante, però».
«Sì che è interessante, ma anche frustrante, credimi. L’altra cosa importante è avere tanta preparazione tecnica per sapere sempre cosa stai facendo, come farlo e come mantenere tutto in sicurezza… Ma mi sembri una ragazza sveglia, e se giochi col perrito devi essere anche brava». Le due si interruppero per dare all’anziano gestore del locale le ordinazioni: acqua frizzante per l’italiana e un centrifugato di verdure per Miranda, che sotto la luce naturale rivelava qualche ruga in più.
«Ti ringrazio. Veramente dopo aver visto certe cose mi sa che devo imparare ancora tanto, ma studiare non mi ha mai spaventata».
«Brava, tesoro. Impegno – e umiltà – prima di tutto. Poi vediamo… Ah sì: se vuoi lavorare bene sappi che si guadagna molto, ma soprattutto all’inizio si investe tantissimo. Abiti, instrumenti, pubbliche relazioni… Se ti muovi bene, sui giornalini e i siti degli annunci ci resti solo un anno o due, poi il tema del lavoro diventa farsi tante conoscenze di altro livello. Metti in conto dei bei sacrifici».
«Be’, a quelli sono abituata, fidati. Però c’è un’altra cosa che non ho mica capito: come si fa per cominciare? Non saprei nemmeno da che parte iniziare».
La donna le prese una mano fra le sue. «Dì grazie al nostro benemerito governo, tesoro» dichiarò sarcastica. «In tutto il resto del mondo le ragazze fanno apprendistato negli studi di professioniste più esperte, senza rischi. In Italia invece si fa ancora finta che queste cose non esistano e quindi è tutto illegale, nell’ombra. Pertanto o ti fai un viaggio di studio all’estero, o ti arrangi da sola. Oppure…»
«Oppure?»
Una cameriera dai tratti orientali portò loro le bevande e un misero piattino d’olive. «Oppure non ti ho detto niente, non mi hai mai vista e non mi prendo nessuna responsabilità, però potresti provare a chiamare una persona. Ma è solo perché il perrito mi ha aiutata tanto quando ero appena arrivata in questo paese e so che gli fa piacere se ti dò una mano».
«Di che persona si tratta?»
Miranda si esibì nel suo miglior sorriso misterioso. «Di una molto, molto particolare, vedrai».
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