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Dov’è il mio Pride?

Questo articolo è stato scritto originariamente per la rivista Psicologia Contemporanea

 

La sfida della rappresentatività per le sessualità insolite

Pur lavorando con ogni forma di sessualità non normativa, ammetto di non avere sempre avuto un buon rapporto con il movimento del Pride. Specie anni fa, quando era ancora solo “gay pride” e, in Italia in particolare, veniva vissuto più come un’imbarazzante cagnara che portava in piazza tutti i peggiori stereotipi sull’omosessualità. Chiamatemi borghese, ma trovo difficile appassionarmi a una causa che si presenti come volutamente offensiva e che lasci una scia di spazzatura dietro di sé. Non amavo le drag queen del discount ubriache sui carri, né i ragionieri vestiti “da femmina” come orrende macchiette che avrebbero fatto vergognare qualsiasi donna, né tantomeno gli sparuti gruppi pseudo-leather palesemente a caccia di ragazzini impressionabili.
Per carità, capisco l’utilità di scuotere le coscienze bigotte… tuttavia sono convinto ci sia una bella differenza fra l’alimentare senza motivo tutti i pregiudizi ostili dei benpensanti e il sottolineare l’esistenza di una parte sociale significativa, con le sue giuste istanze.

È per questo che ho tirato un gran respiro di sollievo quando l’iniziativa ha cominciato finalmente ad allinearsi ai suoi analoghi internazionali, abbandonando la provocazione antagonista a tutti i costi per abbracciare quell’integrazione che, paradossalmente, mancava proprio nelle azioni di chi sosteneva di invocarla a pieno volume. Anzi: i numeri dimostrano che quel respirone lo hanno fatto anche tantissimi altri. Senza nulla togliere al lavoro strenuo e ingrato di tanti attivisti impegnati su altri fronti meno pubblici, da quando l’approccio è cambiato il Pride è divenuto veramente un evento amato e supportato da tutti, che svolge un ruolo importante per promuovere anche obbiettivi sociali di portata storica.
Sarebbe eccessivo dire che oggi nel nostro paese ci sia una piena uguaglianza di diritti fra persone eteronormative e gay, o che le discriminazioni siano tutte cosa del passato… ma sicuramente il peggio è superato. Soprattutto fra le generazioni più giovani, l’omo- o la bisessualità non sono più stigmatizzate come nel secolo scorso. Perfino la fiction ha imparato ad andare oltre lo stereotipo del personaggio effemminato che parla in falsetto e molesta giovinetti fra un motto di spirito e l’altro – sempre peraltro proiettato verso una fine tragica.

I pride, dicevamo, sono solo l’esempio più eclatante di un approccio efficace. Perché essere unici e speciali sarà pure favoloso, ma per vivere serenamente è fondamentale anche potersi riconoscere entro un gruppo di pari – soprattutto se quel gruppo viene accettato e integrato nella cosiddetta società civile. Allora ben venga marciare tutti insieme in armonia, seppure sotto agli striscioni del proverbiale arcobaleno di tribù differenti.
Quando si può, s’intende, poiché molte sessualità alternative non godono affatto di questo privilegio.

Per dimostrarlo posso citare un aneddoto personale. Proprio durante una Settimana del Pride, ero andato ad ascoltare la conferenza di una celebre psicologa e attivista per i diritti soprattutto delle donne gay, che mi aveva affascinato con le sue descrizioni di strutture istituzionali a sostegno delle persone omosessuali discriminate. Siccome mi aveva colpito molto anche la difficoltà dichiarata nel reperire informazioni invece ben note alla comunità BDSM, alla fine dell’incontro ero andato a offrirmi di metterla in contatto con i suoi omologhi in quell’ambito.
La sua risposta merita di essere citata testualmente: «Grazie, ma la mia associazione con voi depravati ci lavora già». E no, non si trattava di una battuta, ma del lapsus più clamoroso che abbia mai sentito. Alla faccia dell’integrazione delle diversità!

Sfortunatamente, a dispetto di tutto il lavoro fatto negli anni per educare a un approccio non giudicante nei confronti delle sessualità parafiliche, quel tipo di atteggiamento è ancora molto diffuso non solo nella confusissima opinione pubblica ma – appunto – anche fra i professionisti. Qui si potrebbe obiettare che siamo tutti influenzati dalla morale comune, dai media, dalle religioni e così via; che certe devianze sono più riprovevoli (davvero?) dell’attrazione fra persone dello stesso genere; che la formazione in genere lascia impreparati nei confronti di questi temi… eccetera, eccetera, eccetera.
Resta però il fatto che gli individui con pulsioni erotiche fuori dal comune sono molto numerosi, e che spesso sono esclusi da ogni forma di integrazione e supporto perché, tolte alcune community online, il pregiudizio preclude loro l’accesso a tali forme di validazione sociale. Per queste persone il percorso compiuto dalla cultura gay nell’ultimo mezzo secolo deve ancora cominciare – anche perché molte parafilie sono circoscritte alla camera da letto e non impongono l’urgenza di riconoscimento delle coppie gay, che non possono certo vivere nascoste.

A soffrire in segreto i loro universi erotici sono allora eserciti di praticanti di BDSM come di feticisti, di pet player, di poliamorosi, di queer, di asessuali e così via. Queste persone hanno subito le dolorose conseguenze della stigmatizzazione o ne sono terrorizzate, pertanto si guardano bene dall’esporsi. Non marciano per le strade, non hanno associazioni cui rivolgersi, non possono contare sugli attivisti, non hanno rappresentanza e spesso vengono derisi o mal giudicati perfino da altre sottoculture sessuali. Figuratevi se pensino di potersi rivelare a cuor leggero a un professionista della salute mentale, che di frequente è ancora temuto come “quello che potrebbe farti rinchiudere”!
Dal punto di vista della sofferenza sociale, giustificata o no che sia, un individuo che nutra semplicemente un interesse anomalo innocuo si percepisce in una condizione analoga a quella di un pedofilo molestante o di uno zoofilo: un reietto senza speranza di trovare interlocutori compassionevoli, e men che meno disposti realmente ad aiutarlo. Ogni volta che sentiamo parlare di sottoculture floride, è bene ricordarsi che sono solo la punta felice di un iceberg sommerso e piuttosto malandato – non per la parafilia in sé, ma per la sua interpretazione sociale.

In qualità di operatori del benessere, ricordare l’esistenza di questa dimensione troppo poco discussa può fare la differenza fra gli strazianti diari di persone gay di appena cent’anni fa e la gioia condivisa dei pride di oggi. Per contribuire a compiere una simile rivoluzione, a quel punto è sufficiente sforzarsi di uscire da una visione normativa del sesso e mostrarsi aperti nei confronti delle pulsioni potenzialmente bizzarre degli interlocutori, invitandoli a condividere senza paura anche questo loro lato. Nel caso si riscontrassero disagi legati all’isolamento descritto sopra, è poi altrettanto importante non affrontarlo solo in chiave terapeutica, ma anche indirizzare il soggetto verso risorse e community affidabili, capaci di offrire quella validazione tanto anelata. Questo approccio vale ovviamente anche di fronte a disagi causati da sessualità insolite altrui.
I risultati, vi prometto, li vedremo ai prossimi pride.

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