Questo sabato parteciperò alla parata del Milano Pride, una manifestazione verso cui ho sempre nutrito qualche perplessità. Faccio parte di quella gran fetta di italiani che non apprezza le carnevalate fatte – oggi un po’ meno, ma tant’è – di piume di struzzo e provocazioni al confine con l’indecenza. I miei nonni m’hanno insegnato l’arte della discrezione, così mi si accappona la pelle pensando ai carri con la musica sparata a palla e alla scia di immondizia lasciata per le strade, senza riguardo per nessuno. Venire associato agli inevitabili ma non infondati commenti scocciati non è cosa mia. Eppure.
Mi hanno spiegato che “il Pride” non è pensato per avanzare istanze, né per dialogare con nessuno se non con chi del Pride fa già parte. «È un momento tribale in cui chi viene discriminato può sentire di non essere solo e affrontare meglio il resto dell’anno». Può essere; però trovo il concetto offensivo, come se convalidasse la disuguaglianza di diritti sociali in tutti gli altri giorni. Eppure.
Conosco abbastanza retroscena dell’attivismo LGBT (di cui tralascio per praticità le altre lettere) da aver ben presenti le lotte intestine, le coltellate alla schiena e l’irritazione di certi gruppi nei confronti di altri – per non parlare dell’ostilità verso nuovi ingressi in quello che dovrebbe essere un ambiente inclusivo. Figuriamoci che, quando sono andato a proporre a un grande nome del mondo LGBT l’apertura di un dialogo con le altre sessualità alternative, per imparare gli uni dagli altri e magari aprir loro l’accesso alle risorse istituzionali già attive sul fronte gay, la risposta è stata che non ce ne fosse bisogno. «Perché siamo tolleranti anche verso i deviati». Eppure.
Eppure vivo in un Paese nel quale, prima ancora di insediarsi al governo, un ministro ha sentito la necessità di dichiarare che le famiglie omosessuali non esistono e che si impegnerà a ostacolare il diritto all’aborto. Vivo in – o forse sono ostaggio di – un Paese in cui un altro neoministro ha violato le leggi internazionali sperando di sopprimere centinaia di rifugiati di un colore a lui sgradito. Vivo in un Paese dove un senatore che da sempre vuole reistituire il Partito Fascista ha cercato di vietare la discussione delle sessualità alternative nelle università. Vivo in un Paese in cui comportamenti del genere non vengono solamente considerati accettabili, ma addirittura esaltati da buona parte della popolazione – senza dubbio la stessa parte responsabile di innumerevoli aggressioni contro chiunque appaia “diverso”.
Per tutto questo parteciperò al Pride. Non per le misere beghe di chi vuole solo far festa, ma per contribuire a dare un segnale a chi la festa la vorrebbe reprimere. Sarò solo una testa fra le tante, ma una testa in più. Se verrete anche voi ci saranno più teste: il segnale sarà più forte.
Il giorno dopo ci sarà ancora Sadistique; e quelli dopo ci saranno ancora gli esploratori sessuali; e così via di iniziativa in iniziativa, nell’impegno di conquistare tutti pari dignità – orgogliosi anche dopo il Pride di essere, ciascuno a suo modo, diversi.