No, ovviamente ‘Ayzad’ non è il mio nome di battesimo. È un nom de plume, uno pseudonimo, un nickname proveniente dal secolo scorso, quando l’approccio verso la privacy veniva vissuto in tutto un altro modo. Scegliersi il nome – e a conti fatti la propria identità – è in parte un gesto di autoaffermazione, ma era anche la prassi per chiunque usasse Internet quando c’erano ancora le interurbane e i modem che gracchiavano. Soprattutto era una precauzione saggia nel magico mondo dell’eros. Un po’ perché si dava per scontato che la sessualità fosse cosa privata, un po’ per evitare di offrire il fianco alle aggressioni (a volte anche fisiche) che sono da sempre uno strumento politico nel nostro paese in cui avere nemici “diversi” da odiare rappresenta un classico metodo per fare carriera.
In particolare, l’argomentazione più frequente nell’ambiente del BDSM da cui provengo era che non ci fosse alcun bisogno di dichiararsi. Le persone omosessuali o trans, si diceva, sono costrette a farlo perché non possono mica nascondere al mondo i loro partner o il loro aspetto… ma perché attirare inutilmente l’attenzione se si ha “solo” il vizietto del bondage, del travestismo o di qualche altro feticismo “invisibile”? D’accordo: ogni tanto spuntavano i vecchi attivisti degli anni ’60 a ricordare che «il privato è politico» e l’importanza di vivere la propria sessualità a testa alta, tuttavia vivevamo benissimo anche in quel clima da mezza carboneria profumato di senso di colpa cattolico – specie da che la Rete aveva reso più facile incontrare altri “deviati”. Con le virgolette, certo, come tanti altri termini autoironici che però a pensarci bene la dicevano lunga su come ci sentissimo: “zozzoni”, “pervertiti”, “maiali” che facevano “porcherie”, “sconcezze” e così via eufemisticamente scherzando. Anzi: “scherzando”.
Se vi racconto tutto ciò è perché, la settimana scorsa, mi sono imbattuto in due cose che mi hanno fatto pensare. La prima è stata il Padova Pride, dove ero stato invitato a partecipare a una tavola rotonda sull’intimità nelle relazioni kinky. Oltre a essere stata una bella occasione per conoscere persone interessanti e rivedere vecchi amici, ne ho approfittato per seguire un’altra conferenza sulla psicologia in ambito LGBT in cui s’è parlato anche dei disagi derivanti dalla omolesbobitransqueernegatività. Come dire: dalla paura di fare coming out e dei pericoli insiti nelle reazioni altrui.
Vi risparmio altri paroloni lunghi tre righe: il succo del discorso è che nascondere (e nascondersi) le proprie preferenze erotiche fa male, ma se oggi si può evitarlo senza eccessivo rischio è merito di decenni di iniziative culturali, associazionismo, attivismo e strutture anche istituzionali di supporto alla comunità LGBT.
Cosa succede però quando la propria sessualità non è inquadrata in quelle quattro lettere e mancano quindi tutti i relativi strumenti? Beh, succede la seconda cosa. Cioè che Serena (giovane, carina, con un trascorso difficile) abbia raccontato la propria passione per il BDSM in un paio di interviste mettendoci la faccia e il nome… e sia stata bersagliata da moltissime, pesanti critiche proprio da parte della cosiddetta “comunità kinky”, sia online che negli eventi pubblici cui mi è capitato di presenziare. Per non parlare dei soliti, deliziosi benpensanti – che da bravi cristiani praticanti hanno pensato bene di insultarla e perfino minacciarla di morte, come da copione. Risultato: per vivere tranquilla, la signorina in questione ha dovuto richiedere che il suo volto e i dati personali venissero rimossi dalle interviste.
A questo punto è utile chiarire alcuni fatti. La disapprovazione degli altri appassionati è stata rivolta soprattutto a un paio di dichiarazioni sulla spinosa questione della violenza sessuale e delle fantasie di stupro. Parte del biasimo nasceva anche dalla preoccupazione: con tutte le brave personcine che ci sono in giro, una bella ragazza che si annuncia pubblicamente masochista è stata percepita come un invito a nozze per gli squilibrati violenti. Ma – va detto – vi è stato anche un inequivocabile sottotesto di offesa: una sorta di «Chi si crede di essere ‘sta sciacquetta per pontificare sull’esoterico mondo dell’eros estremo?»
Il rimprovero del “grande pubblico”, invece, nasceva da una logica assai più semplice, da Antico Testamento. Se ti piace il sesso, e pure strano, sei una troia. E le troie vanno punite. Tutto qui.
Lasciando da parte i talebani de noantri, il fatto è che l’unica “colpa” della ragazza sia stata accettare una richiesta di intervista, peraltro condotta senza malizia (la stessa giornalista ha intervistato anche me, dimostrando la massima professionalità). Serena di nome e di fatto, non ha visto alcun motivo per nascondere ciò che la rende felice e, magari con un po’ troppo entusiasmo, si è esposta più del normale.
Onestamente non penso di poter giudicare se abbia sbagliato. Dal suo punto di vista, quello che sbaglia sono io col mio nome d’arte. Sicuramente abbiamo sbagliato tutti noi che, mentre il mondo gay combatteva e soffriva per i propri diritti, ci siamo chiamati fuori e abbiamo continuato a preoccuparci solo dei nostri giochi privati scrivendo magari negli annunci per la ricerca di partner che eravamo ‘insospettabili’ ed ‘estranei a giri particolari’. Mai capito cosa volesse dire, peraltro. E ha sbagliato la presunta “cultura BDSM” a continuare a darsi di gomito per tutte quelle virgolette, tanto che oggi non esiste nemmeno una parola italiana per definire chi viva serenamente le proprie parafilie: tocca usare parafrasi tipo ‘esploratori dell’erotismo estremo’.
Insomma: come dicevo, questi fatti mi hanno dato da pensare – ma non sono riuscito a giungere a una conclusione, così ho preferito condividere con voi le mie perplessità. Ieri, al cinema, ho visto il trailer di una commedia adolescenziale sul coming out gay. Il giorno prima ho assistito alla tragedia di un coming out kinky. L’unica cosa che mi viene in mente è chiedermi: «e adesso che si fa?»
In attesa di una risposta, intanto mi sono fatto una chiacchierata con la diretta interessata.
Ciao, Serena! Vogliamo cominciare da una tua presentazione?
Ciao, certo! Io sono Serena, ho 20 anni e frequento il primo anno di filosofia. Su di me non posso raccontarti molto perché la maggior parte delle esperienze formative di una vita devo ancora farle, ma posso riassumere cos’ho fatto finora. Il punto fondamentale per capire ciò che faccio e i miei punti di riferimento è il diploma di liceo artistico. Amo l’arte in tutte le sue forme, e cerco di mettere questa grande passione in tutto quel che faccio: dal lavare i piatti a quando con la cera sgocciolata riproduco (o almeno ci provo) le opere d’arte dei miei artisti preferiti sulla schiena delle persone.
A 16 anni mi sono appassionata alla fotografia. Ammetto di non capirci gran che, ma col passare del tempo ho capito quanto mi piacesse stare dall’altra parte del obiettivo. Così mi sono lanciata nel settore come modella di ritratti, poi divenuta maggiorenne ho deciso di intraprendere il filone fetish e BDSM: la mia avventura “pubblica” è nata un po’ così.
Tu sei anche la persona che, in Italia, ha fatto il coming out BDSM più visibile degli ultimi tempi. Sei comparsa in diverse interviste con il tuo nome completo, a viso scoperto, dichiarando le tue preferenze e la tua storia – e non ti risparmi nemmeno di comparire con personaggi discutibili o andare a passeggio in pieno dress code fetish. Come mai una scelta tanto radicale?
Il mio non lo chiamerei un vero e proprio coming out, ma un percorso di crescita o esplorazione di me stessa. Non era assolutamente calcolato che sarebbe successo tutto questo. Per ora potrei suddividere il mio cammino nel BDSM in tre grandi fasi: “il silenzio”, “l’approvazione” e “l’amore”.
Sono andata al mio primo munch a 18 anni. Ero lì per trovare qualcuno che condividesse passioni simili alle mie, qualcuno con cui confrontarmi e dialogare su questi aspetti della vita che avevo notato tenuti nascosti da molti. Ho iniziato così, nel silenzio: non parlavo con i miei compagni di classe di quello che scoprivo, in famiglia cercavo di non dare troppi segnali… potevo solo stare zitta e ascoltare chi aveva più anni ed esperienza di me. Cercavo di imparare e imitare, come fanno i bambini nei primi mesi di vita.
Mancandomi i contatti con persone dell’ambiente, in principio pubblicavo foto di bondage giapponese prese da Internet sul mio primo profilo di Facebook, dove avevo compagni di classe delle medie, delle superiori, amici d’infanzia… non facendoci più di tanto caso. Poi, su suggerimento, ho creato un secondo profilo “Serena Tsuki” che però venne segnalato come falso costringendomi così a cambiarne il nome con i miei dati reali. Lì partì in me una specie di sfida.
Mi sentivo un pò la ragazzina con idee utopistiche e rivoluzionarie, che sperava di poter cambiare un minimo l’opinione di chi non conosceva l’ambiente – o almeno di contribuire alla causa. Mi dispiaceva conoscere persone che avevano paura del giudizio altrui, che in casa non potevano dire di questa loro passione, persone che erano quasi costrette a nascondere una cosa che amavano fare. Prendendo una frase di Martin Luther King, potrei riassumere quanto detto con: «Una rivolta è in fondo il linguaggio di chi non viene ascoltato».
Il volto scoperto è arrivato quasi un’anno dopo, come sono arrivati dopo i set fotografici in latex a Milano e a Como e l’intervista. Per quanto riguarda il comparire con “personaggi discutibili” penso non ci sia nulla di male nel mangiare una pizza riscaldata con una persona che nel pieno dei tuoi anni adolescenziali ti ha tenuto compagnia attraverso lo schermo di un computer. Purtroppo il web molte volte ci fa mascherare quello che realmente siamo, obbligandoci a creare nuove maschere giorno dopo giorno.
Dare tanta visibilità alle tue passioni private ha suscitato numerose critiche dall’ambiente BDSM stesso, dove vige principalmente la filosofia del ‘don’t ask, don’t tell’. Mi viene quindi naturale chiederti se ci siano state altre reazioni negative, e se ne sia valsa la pena.
Fra le reazioni negative ci sono state inizialmente quelle dei miei genitori, ma dopo un dialogo e il passare del tempo se ne sono fatti una ragione. Quelle delle persone che mi conoscono sono state di vari tipi: si passava dall’indifferenza degli amici d’infanzia al bullismo in classe, dove mi lanciavano addosso penne ed elastici, ma intanto di nascosto si scambiavano le mie foto via cellulare. Prima ci ho sofferto, ma col passare del tempo ho capito che se ero felice della mia vita tutto il resto poteva passare in secondo piano. Comunque mi sono presa una piccola rivincita personale quando ho portato lo shibari come argomento dell’esame di maturità, suscitando reazioni molto positive all’interno della commissione.
In effetti la questione è tutta qui: chi ha gusti insoliti non esteriorizzati di solito non sente l’urgenza di fare coming out se non con i propri partner. Ti confesso che per me, che ho scoperto la mia attrazione verso il BDSM quando ancora andava forte la Democrazia Cristiana con tutte le sue ipocrisie, sentire che tu abbia informato subito perfino i genitori dei tuoi gusti fa piuttosto impressione. Non metto in dubbio il bisogno che hai sentito di prendere una tale decisione, tuttavia sono curioso di sapere se tu ne abbia valutato le conseguenze a lungo termine. Penso per esempio al rapporto col mondo del lavoro in questo periodo di rigurgiti fascioconservatori, o in un futuro più lontano.
Prima di trattare questo punto ci tengo a precisare che i miei genitori lo hanno saputo quando avevo 19 anni, iniziavo a frequentare i primi play party e a portare in casa i primi abiti da dress code. Per rispondere alla domanda però direi che inizialmente non avevo valutato le conseguenze, anche perché nulla di tutto questo era calcolato.
Man mano che vado avanti sto un pochino più attenta alla privacy. Prima era tutto alla luce del sole, ma ora per esempio tengo il profilo Instagram chiuso; le foto di Facebook sono per la maggior parte protette; ora le amicizie sul profilo kinky possono inviarmele solo persone che hanno amici in comune con me… Ho preso questa decisione non tanto per “proteggere” il mio futuro, ma per non coinvolgere la mia famiglia – soprattutto mia sorella. Se mi viene chiesto direttamente non ho paura a raccontare quello che faccio: la cosa importante è che non ci siano conseguenze per loro.
Per quanto riguarda il futuro, breve o lungo che sia, penso che il BDSM non influenzi più come i vecchi tempi le decisioni di un’assunzione. Ovviamente dipende anche dal tipo di lavoro che si vuole intraprendere, sullo stile di vita che una persona decide di avere. Ora mi godo la gioventù e l’università: quando poi bisognerà trovarsi un lavoro dato che non potrò vivere solo di set fotografici ed eventi BDSM, vedrò il da farsi e cercherò di prendere le decisioni più opportune per quanto riguarda le immagini e i vari social. Dato che vorrei trovare un lavoro stabile e avere una famiglia, se necessario sarei anche disposta a rinunciare a tutto quello che riguarda “il pubblico”.
Vorrei concludere affrontando il tema della violenza di genere, che ho letto essere stato uno dei motivi per cui ti sei avvicinata all’eros estremo. Una critica che sinceramente condivido riguardo le tue dichiarazioni è sulla leggerezza con cui dichiari di usare il BDSM come terapia di trascorsi e fantasie di stupro. Ammesso che sia stato uno strumento valido per te, infatti, mi sembra difficile considerarlo una soluzione universale. Al di là di come alcune tue interviste si prestino a essere equivocate e quasi a giustificare la violenza, oggi c’è un forte movimento internazionale di attivisti – come la dott.ssa Caroline Shahbaz – che mette in guardia proprio chi, senza avere le qualifiche per farlo, tratta la dominazione erotica come una terapia. Puoi chiarire il tuo pensiero su questo aspetto?
Voglio precisare una cosa: non ho mai parlato di BDSM come terapia, nonostante molte persone ne siano convinte. Secondo me il desiderio di subire una violenza è completamente diverso dall’utilizzare il BDSM come terapia, dato che le due cose non si avvicinano minimamente allo stesso tema.
Come ho dichiarato anche in quell’intervista tanto criticata, lasciamelo ri-sottolineare: nel mio caso, a farmi superare i postumi della violenza non è stato il BDSM. Prima di iniziare a documentarmi sull’eros estremo sono stata da vari psicologi, medici e specialisti in modo che anche durante le mie scoperte sulla sessualità alternativa avesso sempre qualcuno accanto pronto a guidarmi e a darmi consigli medici. Penso che le cattive interpretazioni dell’intervista siano derivate dal fatto che non riportava molte nozioni e dettagli che avevo fornito. Uscire sul giornale ha suscitato tanta ammirazione quanto indignazione, e penso che entrambe dipendano dalla sensibilità del singolo lettore e da quanto mi possa conoscere.
Lì ho parlato anche di “salotti”, ma non si tratta di eventi strutturati. Non erano altro che dei pomeriggi tra ragazzi che parlavano dei propri gusti e passioni, tra cui sono emerse queste fantasie di violenza. Pure in quelle occasioni non si è mai parlato di BDSM come terapia dopo una violenza: oltretutto non avendo fatto quel percorso non avrei potuto dare nemmeno un parere soggettivo sul tema. Non mi dichiarerei mai terapeuta… E poi, terapeuta di chi? Di che cosa? Il fatto che io abbia voluto portare la mia esperienza dentro un gruppo non mi fa ne terapista, né medico, né psicologo. Se organizzare delle sessioni in cui si affrontano i propri desideri e le proprie fantasie in modo sano e consensuale – cosa che penso faccia la maggior parte delle persone BDSM – fa di me una terapeuta, direi che abbiamo sbagliato tutti lavoro!
Entrare nell’ambiente del BDSM mi ha aiutata a ricostruire una cerchia di amicizie; mi ha fatto conoscere l’uomo che amo, ma non considero queste pratiche una cura per traumi e sofferenze passate. Mi complimento con la dottoressa Shahbaz e gli altri attivisti che affrontano un tema così delicato e importante, che a parer mio non vale solo nel BDSM ma in tutto.